Quarto capitolo del "periodo storico" dei Papa' Ubu, freschi freschi di avvicendamento alla chitarra (partito Tom Herman, arriva l'icona Mayo Thompson con cui il quintetto tutto aveva appena collaborato nella sulfurea riedizione dei Red Crayola) e di contratto indipendente (la banda era stata da poco defenestrata per scarso rendimento -economico, of course- da quelli della Chrysalis).

Dal contratto indie (chez mamma Rough Trade) e contemporaneo sodalizio con Mr. "free form freak out" non poteva che derivare il loro lavoro più ostico e controverso (i recensori dell'epoca duellarono per mesi a colpi di "Masterpiece!" da un lato e "No! Monnezza!" dall'altro) della loro gloriosa carriera tutta. Tant'è... Si inizia (come sempre) all'arma bianca... trillo di chitarra e... "GO"!! Poderoso funky, retto da un riff dal vago sapor d'oriente, trafitto dalle strepitose electropernacchie dell'EML di "Genius" Ravenstine e guarnito dai volteggi dell'ugola più inquieta della storia. La forma sembra quella delle grandi occasioni.... A far trio con l'ouverture saranno, diluiti nell'ellepì, altre due simili, furiose performances ritmiche sempre di altissimo livello: "Misery Goats" con (ancora!) pregevole ostinato chitarristico e cantato più assatanato che mai e "Rounder" ovvero i Talking Heads dopo generosa assunzione di psicostimolanti... ma per il grosso del restante, ahinoi, si va un po' a zoppicare...

Cinque brani su undici (circa la metà del minutaggio, in verità un po' troppo) si muovono in territorio "free form", e, fin qui, nulla di male. Il problema è che, in quest'ambito, si rimane ben lontani dai brillanti risultati espressivi ("Sentimental Journey", "Thriller !", "A Small Dark Cloud") o dalle attraenti soluzioni strumentali ("Codex", "Voice of the Sand") del passato. Esclusa infatti la tenue e suggestiva "Rhapsody in Pink" (Thomas rilassato narratore su un ben assortito tappeto di rumori acquatici e piano espressionista) e, parzialmente, "Young Miles in the Basament" (da salvare per l'interessante esperimento vocale un po' mantra), i nostri arrivano qui ad essere (sorry!) quello che mai sono stati: noiosi ("Arabia": cinque soporiferi minuti di organetto atonale senza capo nè coda) o francamente incomprensibili ("Lost in Art" scriteriato pestaggio di rullante con Thomas che sbraita a gran voce -per quello che ho capito- reclamando le proprie scarpe (!), "Crush this Horn" disturbatissimo solo di sax semisepolto da interferenze radio d'epoca... ma per favore!!!). Classico cavolo a merenda risulta quindi la sognante "Horses", ballad elettrica, splendidamente sbilenca sul piano armonico e caracollante su quello ritmico ed in più, soavemente cantata (non da Thomas!!): insomma, la cosa più melodica registrata dagli Ubu dai tempi di "Heaven", quasi un precorrere il lontano futuro periodo Fontana. Il resto ("Birdies" e "Loop", pur, alla loro maniera,  stutturate) scorre senza lasciare traccia.

Dopo quest'opera la band continuerà a perdere i pezzi per strada (Scott Krauss, in panchina per metà disco, pressochè relegato a metronomo per il resto, lascierà di lì a poco) senza che il successivo inserimento delle polirimie jazz-samba di Anton Fier, riesca a risollevarne le sorti più di tanto. Da fonte alquanto più autorevole della mia, TAOW è stato giudicato "... la loro opera più perfetta dopo "The Modern Dance" "... a me pare, al contrario, il classico vicolo cieco in cui si è infilata la loro arte, al termine di uno dei più brillanti cicli creativi della storia del rock... per fortuna, otto anni dopo arriverà "The Tenement Year"...

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