Non rivedi mai un film con gli stessi occhi. E se questa volta il pretesto per tornare in sala era il 4K, la verità è che morivo dalla voglia di mettere alla prova le mie emozioni e il mio sguardo critico, vent'anni dopo. Era il giorno del mio tredicesimo compleanno e questo film divenne per me una nuova ossessione: ricordo che me lo guardavo a ripetizione in videocassetta, l'estate successiva. So praticamente tutti i dialoghi e le inquadrature a memoria. Eppure rivederlo al cinema non è stato un passaggio scontato o inutile, ieri sera ho percepito il magnetismo delle vicende come se fosse la prima volta, ho girovagato insieme ai piccoli hobbit nei boschi della Contea, ho sentito con Gandalf l'odore del sangue e del tradimento di Saruman a Isengard, ho sofferto il gelo di Caradhras e l'abisso di Moria.

Impensabile oggi

L'esperienza, il tempo trascorso, la qualità ancor più sopraffina delle immagini. Tutti elementi utili per ponderare un nuovo giudizio, indipendente dall'amore ventennale che ha formato in modo indelebile il mio gusto per il cinema. Ho rivisto La Compagnia con occhi nuovi e ne sono rimasto abbacinato. Un lavoro del genere, oggi, è fuori scala. Nel senso che nel 2021 nessuno farebbe mai un film così, condensato in solo tre ore; sfrutterebbe questo ben di dio per farci una serie tv (e infatti è in produzione per Amazon quella sul Silmarillion), forse anche due. Invece, per una serie di fortunati eventi, Peter Jackson potè lavorare sulla lunghezza di tre film (inizialmente due) e quello che ho rivisto sul grande schermo, comprendendolo con una coscienza nuova, è un poema visivo di rara intensità e cura, una summa fantasy che abbraccia valori cristiani e non solo.

Poema per le parole scelte con amore, per i valori sottesi, ma poema di immagini per la finezza pittorica degli scenari, su cui non a caso il regista sa indugiare (per permettere a noi di vedere). La giustezza con cui si incontrano gli agganci narrativi è clamorosa, anche se non mancano un paio di coni d'ombra minimi (la parte in cui Gandalf va e torna da Minas Tirith non è chiarissima nelle tempistiche rispetto all'arrivo dei Nazgul). Ci vengono presentati numerosi personaggi e ognuno di essi ha il suo respiro, la sua evoluzione. Ho sentito una fortissima nostalgia per un cinema hollywoodiano che sa essere lento, sa prendersi i suoi tempi, ma che è anche densissimo di contenuti. Qui siamo su punte vertiginose. Un esempio su tutti: quando la Compagnia è ferma nelle miniere, perché la guida non ricorda la via, c'è spazio per un dialogo che regala frasi di questa statura.

"Molti di quelli che vivono meritano la morte, e molti di quelli che muoiono meritano la vita. Tu sei in grado di valutare, Frodo? Non essere troppo ansioso di elargire morte e giudizi. Anche i più saggi non conoscono tutti gli esiti”.

Scenari e regia

Il poema delle immagini è capolavoro tecnico di computer grafica e ambientazioni reali, che abbraccia gli scenari lugubri delle miniere, quelli bucolici della Contea, quelli incantati dei regni degli Elfi. Ma è poema di puro cinema anche nei passaggi più tecnici alla regia, quando la cinepresa si sposta negli anfratti della tomba di Balin, assediata da orchi e da un troll di caverna. Frodo fugge, si ripara, e noi con lui, siamo in mezzo alla mischia, ma con solo pochissimi istanti di confusione visiva. Perché Jackson vuole mostrarci, conquistarci attraverso la fascinazione delle nostre menti, e non soggiogarci con movimenti di mera adrenalina fine a se stessa. La decantazione degli anni mi dice una volta di più che quell'amore di ragazzino non era mal riposto: oggi queste immagini sono se possibile ancor più felici, perché si contrappongono a un cinema che è diventato sempre più usa e getta. Qui no, qui le scalinate ripide dei nani hanno un peso specifico, sembrano collassare sotto i nostri piedi. E così il ponte di Khazad Dum apre una voragine che ci fa paura, sentiamo il vuoto sottostante.

Negli spazi così ben scanditi l'occhio dell'autore si muove con energica intelligenza, va a curiosare ovunque, con tuffi verticali nelle profondità dei misteri della Terra di Mezzo. Una volta individuati i riferimenti (Mordor, la torre di Isengard, le Montagne Nebbiose) ci possiamo muovere con sicurezza in un mondo che funziona perché accuratamente semplificato. C'è molta didattica nella ripetizione dei miti, perché è importante che capiamo. La cartina di Tolkien è complicata, ma lo scontro bene male si scandisce in modo quasi lineare tra ovest ed est. Avendo dei riferimenti, il viaggio può dipanarsi con grande frizzantezza, perché se saltiamo da Isengard a Gran Burrone nessuno avrà il dubbio di dove ci si trovi. In questo senso, anche la cinepresa non è pigra, ma anzi gioca con le angolazioni (nel bosco, quando il Nazgul sente odore di hobbit, a Brea, nelle fucine dello stregone bianco), corre velocissima nel reame dei nani, esce fuori libera nel bosco di Lothlórien, va giù a picco dai cieli solcati dalle aquile amiche di Gandalf fino gli intestini della terra dove Saruman plasma i suoi mostri.

Stregoni e raminghi

Pensavo: nel 2001 gli schermi dei cinema credo fossero digiuni da un po' di maghi e stregoni. Poi in un colpo solo Ian McKellen e Christopher Lee. Non benissimo per gli altri registi che volevano cimentarsi con il genere. Questo film è gigantesco anche per questo, perché rilancia un genere desueto e lo fa con una perfezione formale che sarà in sostanza la condanna anzitempo del genere stesso. Non puoi fare meglio di così, non puoi battere sir McKellen. Quando i due si scontrano, i giochi slapstick tra il comico e il truculento si mescolano alle espressioni feroci dei due anziani. Uno gira sulla testa, l'altro cade a gambe all'aria, sembra la versione truce del Merlino contro la maga Magò della Disney. Perché in tutto questo c'è anche grande ironia, fondamentale per non eccedere con i carichi. Poi questo primo film risulta secondo me insuperabile perché non deve fare troppo i conti con la figura scomoda (a livello di pura economia narrativa) di Gollum.

Jackson ha scelto Viggo Mortensen per la parte di Aragorn, e ha vinto. Ha preso Sean Bean, Elijah Wood e Sean Astin. E ha vinto. Ha inventato Orlando Bloom. Quei volti, rivisti oggi, non hanno perso in vent'anni un grammo del loro carisma. E fatico a trovare, se non in rari casi, delle parti successive in cui hanno fatto meglio.

Una triade cristologica

Potrei andare avanti per pagine e pagine, ma non serve. Serve invece sottolineare quanto a suo tempo avevo completamente ignorato, iniziando a recuperarlo qualche anno fa con le più recenti visioni. In questo primo capitolo, forse anche per merito di alcuni dialoghi variati in questa edizione (ma non ne sono certo), emerge con forza la dimensione squisitamente cristologica della vicenda di Frodo. L'agnello senza macchia che può portare il peso del vanitas vanitatum, l'anello del potere, la vita terrena e la corruzione degli animi umani. Tutto il meccanismo dell'avventura è perfetta metafora dell'affanno umano alla ricerca dei beni terreni, che smuove energie immani: il Balrog, la piovra demoniaca, i troll, Saruman e Gollum, Boromir e poi Faramir, Bilbo. Tutti uguali, tutti uomini e mostri corruttibili, e per questo condanna di Frodo alla solitudine. La fuga solipsistica è una prova che non può evitare, il suo destino. Come destino degli altri eroi è cadere per rialzarsi: in questo senso, il saggio Gandalf si lascia andare giù negli abissi, per combattere un male tanto profondo e tornare nuovo alla vita. In questo, c'è anche molto delle filosofie orientali, l'ineluttabile Yin e Yang, ma piegato a una visione teleologica.

In tutto questo, Gesù Cristo è dimidiato, diviso in due figure opposte e complementari: l'agnus dei Frodo e il maestro di saggezza Gandalf. Forse ci possiamo aggiungere anche l'amico immarcescibile e sostegno fisico (oltre che morale) Sam. Una triade, perché non era il caso di prodursi in imitazioni delle sacre scritture, ma tutto il resto sembra proprio che sia lì che vada a parare.

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