Philip Glass e io ci siamo conosciuti per caso, quando avevo 16 anni appena compiuti e ciondolavo come tutti gli adolescenti dell'epoca ascoltando i cantautori anni Settanta e poco altro. Complice fu Tele+ e la mia curiosità. Volevo vedere cosa trasmetteva la tv a pagamento la notte di Capodanno, che tipo di palinsesto avesse organizzato per brindare al 1993 con uno zerovirgola di share. Tele+ aveva deciso di trasmettere Koyaanisqatsi e Powaaqqatsi e a me 'sti nomi facevano un gran ridere.
Azionai il timer e dopo qualche giorno, mi ricordai che dentro il videoregistratore c'era questa videocassetta che mi aspettava.
Il senso di Koyaanisqatsi è che il mondo è fantastico, l'uomo un po' meno e che gli Hopi lo avevano predetto che sarebbe stato il caso di tornare a una nuova condizione di vita, prima che i reticoli frenetici della civilizzazione compulsiva ci trasformassero in automi prevedibili e dannatamente pericolosi. Il commento sonoro di Philip Glass, mi accolse come un amico che conosci da sempre ma che non hai mai incontrato. Quella musica sembrava appartenermi. Era una musica consonante, ripetitiva: ghirigori di cinque-sei note, prolungate in una sorta di ad libitum dal fascino bordonico e illusioni auditive, con una costruzione verticale e un contrappunto che non lesinava tradizione e innovazione e che a tratti mi ricordava qualcosa di quel tizio, Bach, che distrattamente avevo ascoltato tra un De Gregori e un Venditti. La musica di Glass scritta appositamente per questo docu-film, era perfetta e pare che in fase di postproduzione, lo stesso Reggio abbia adattato alcune scene per non lasciarsi andare a pratiche di cutting sulle musiche del compositore di Baltimora.
Koyaanisqatsi riprende i dettami estetici di "North Star" (Arturo Stalteri lo considera l'album più riuscito di Glass), "Glassworks", le “danze” e tutto quel percorso che dagli inizi estremi di “Music in Fifths”o “Music with Changing Parts” lo avevano portato a Parigi e all'interno di un percorso dove si respirava India e modulazioni orientali. La scena delle “autostrade reticolate”, accompagnate dalla composizione “The grid”, è forse il picco di questa opera.
Confesso che da quel giorno, la mia vita cambiò. I miei amici me lo ripetevano quasi ogni giorno: "Sei cambiato", con quel fare accusatorio tipico del singolo che si allontana dal branco, perché in quel concetto di comitiva-comunità, dove ogni cosa deve essere motivata e spiegata, vedevo quegli stessi reticoli-catene, un'omologazione che mi avrebbe impedito di andare alla ricerca della mia identità. Anche la mia vita era in tumulto e richiedeva un'altra condizione di vita.
Ancora oggi, dopo più di vent'anni, mi guardano come quello che "si sente 'sto cazzo".
Quello scherzo dei Qatsi era una sorta di messaggio profetico: i nativi americani, Glass, Reggio, aspettavano (anche) me, per rendermi una persona migliore, per farmi capire che il male lo crea chi lo vede. Questo capolavoro fa vedere la nostra quotidianità come un male al quale siamo tragicamente abituati. Siamo ormai incapaci di staccarci dalle abitudini collettive e trovare il coraggio di andare alla ricerca del chi siamo più profondo. L'unico “chi siamo” che esiste oggi, lo ritrovi nel menu dei siti web. Paradossalmente, tanto Godfrey Reggio, quanto Glass, dimostrano ancora una volta quanto gli States, da Charles Ives a Lou Harrison, passando per John Cage e La Monte Young, avessero costruito un'affascinante letteratura del pensiero etnologico da contrapporre ai cardini occidentali che hanno da sempre tratto ispirazioni da una teosofia di stampo cristiano-cattolico. E in fondo, da Reggio, un appartenente del “Christian Brothers Teaching Order” (disgraziatamente arrivati agli onori delle cronache per situazioni tutt'altro che encomiabili), ci si poteva anche aspettare un predicozzo di arte del dire cristiana da abecedario post-Concilio Vaticano II.
Di lì a breve acquistai anche “Low Symphony”, il riadattamento sinfonico di alcuni brani di “Low”, il disco berlinese di Bowie. In copertina ci sono Glass, Eno e il Duca e anche quel tassello, di lì a breve, mi sarebbe stato molto chiaro.
Philip Glass scriveva sinfonie, produceva album di gruppi new wave come il debut dei Polyrock (sottovalutatissimo), aveva scardinato il concetto di musica colta e musica d'uso, avrebbe scritto colonne sonore per film (orrore, negli ambientini musicali classisti), avrebbe collaborato con Cohen, Shankar, Ginsberg. Il suo "Hydrogen Jukebox" ce l'ho autografato, perché alla fine, Philip Glass l'ho conosciuto anche umanamente: a Foligno, a Palermo, a Roma. Tante occasioni per scambiare due chiacchiere con una delle persone più belle che abbia mai incontrato in questo passaggio terreno.
E tutto grazie a 'sti Qatsi ma soprattutto grazie alla profezia della curiosità che non dovrebbe mancare mai.
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