A Portrait of the Artisan as a Young (Jazz)Man.
Basta camminare per Via dei Serragli o salire da San Niccolò, passando di sbieco per qualche stradina vuota al mattino presto o sotto la pioggia, per rendersi conto di quanto l’Oltrarno fiorentino rassomigli a Piero Umiliani. Il di là d’Arno è zona di bottegai, di mercati in piazza, di vecchi biciclettai, d’artigiani col grembiule liso e gli occhi sinceri. E proprio a Gavinana, che queste caratteristiche d’una Firenze tra uscio e bottega assomma in sé perfettamente, nacque e crebbe l’artigiano del suono Piero. Un artigiano sì, ma col piglio da jazzista d’antan.
Finita la guerra, Piero ha vent’anni e fa la spola tra il Conservatorio all’angolo di Via degli Alfani, ad un tiro di schioppo dall’Accademia, e l’Orchestra della Rai di Pippo Barzizza.
Dopo qualche anno scoppia la febbre cool, e Piero scrive dei pezzi per l’allora celebre quintetto di Gianni Basso & Oscar Valdambrini, ma soprattutto conosce il nume tutelare degli sfiatatori piemontesi: Chet Baker.
Con l’aiuto della tromba robusta e fumosa di Chet, potrà incidere alcuni pezzi indelebili del jazz italico tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta. Nello sbarazzino e sincopato “Gassman blues”, scritto da Piero per "I soliti ignoti", si può quasi masticare l’aria frizzante ed ingenua degli anni Cinquanta.
Ma è nella colonna sonora del successivo “Smog”, che gli anni del boom galoppano, alternandosi a malinconie in bianco e nero. “Thinkin’ Blues” è come un precipitato di tutto quel che vi era di buono, di irripetibile, in quel periodo.
Solo l’artigiano del suono Piero Umiliani sapeva far dialogare con leggerezza e quasi con perculaggine musica e cinema, creando quel sapiente impasto che sarà sempre un suo marchio di fabbrica.
Certo, qui Piero è però ancora un ragazzo coi capelli impomatati; e gli anni Settanta, dove il suo stile esploderà rimiscelando ed inventando mondi sonori, sono ancora oltre l’orizzonte.
Ma questa sua ingenua sincerità forse non si ripeterà più.
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