I Pink Floyd sono uno dei gruppi musicali più noti degli ultimi quarant'anni e, come noto, hanno traghettato il rock dalla psichedelia acida delle origini a territori progressive, per giungere, alla fine degli anni '70, ad una personale sintesi fra rock sinfonico e musica d'avanguardia, curando tuttavia la produzione ed il suono in maniera tale da rendere i loro album facilmente fruibili a larghe fasce della popolazione giovanile e no. Non è del resto un caso se i loro album compresi fra il periodo di "Dark Side of The Moon" e questo "The Wall" sono stati dei best-seller, ed in alcuni casi addirittura dei long-seller.

The Wall è l'album forse più popolare e noto del gruppo, anche se non il più venduto, ed ha molto contribuito, anche grazie all'omonimo film di Alan Parker ed ai concerti del leader e bassista Roger Waters ai tempi della caduta del muro di Berlino, a diffondere il linguaggio e la poetica della band oltre i confini della cerchia, più o meno ristretta, degli appassionati di musica, per divenire quasi un fatto di cronaca.

Si tratta di un album a tema, o Concept, in cui tutte le canzoni sono fra di loro collegate sotto il profilo dei testi, componendo un unico affresco narrativo, ed in cui la stessa musica, intesa come melodie e soprattutto come arrangiamenti, risulta compattata attorno a temi che ricorrono spesso, o comunque ad atmosfere che danno continuità all'intero (doppio) album.

Sul genere e sullo stile musicale non vorrei scrivere troppo, anche perché l'album è noto e già recensito: se lo si ascolta e lo si paragona ai primi lavori del gruppo, il suono si è molto asciugato e sono venute meno le trame delle tastiere di Richard Wright, ad appannaggio di un suono più compatto e coeso che ruota attorno alla ritmica basso batteria, che a volte assume andature quasi disco (Another Brick..., Run Like Hell) ed agli interventi di chitarra di David Gilmour, che qui spicca soprattutto in alcuni lunghi assoli (Confortably Numb).

Quella che è una sostanziale povertà ritmica e melodica dell'album è compensata da un attenta produzione che drammatizza l'intera vicenda narrata e che rende quasi teatrale il risultato, grazie ad un Roger Waters che spesso recita, più che cantare, aiutato nella fase più melodica dalla voce più duttile di David Gilmour.

L'aspetto che mi preme mettere in evidenza è quello della storia narrata, che a grandi linee mescola le vicende biografiche di Roger Waters (infanzia, ascesa nel mondo della musica, problemi conseguenti fra dorghe e drammi matrimoniali) ed in parte dell'ex chitarrista dei primi anni della band, Syd Barrett (alienazione, progressivo allontanamento dalla vita attiva), in una specie di gioco di specchi in cui il presente dell'autore, alla fine degli anni '70, è caratterizzato da una dissociazione, fisica, mentale, artistica, rispetto al resto del mondo, che sembra quasi ricalcare i drammi dello stesso Barrett, divenuto malato di mente dopo anni di abusi di sostanze psicotrope.

L'album è dunque una specie di resoconto della perdizione di Waters, fra ricordi dell'infanzia dolorosa per la perdita del padre, presenza di una madre ossessiva, incapacità di tessere rapporti sereni e duraturi con le proprie donne, alienazione artistica, disprezzo per lo show biz, crisi di creatività, e, soprattutto, consapevolezza latente sul rischio che una commercializzazione dell'arte, un successo planetario, una musica abbassata a livello di intrattenimento di consumo per le masse, porti l'artista e l'uomo ad essere nulla, in una società totalitaria.

Solo un attento processo a sé stessi, alla ricerca di una verità che è probabilmente quella dell'Amore nel senso più alto del termine (Agape), può aiutare l'artista ad abbattere questo muro e, con le struggenti parole con cui si conclude l'album "The ones who really love you /Walk up and down outside the wall/Some hand in hand/Some gathering together in bands/The bleeding hearts and the artists/Make their stand".

Un album difficile, dunque, ma che si apre tuttavia ad una non facile speranza finale, ad una visione conciliante che non può che prescindere dall'abbandono delle droghe, della perdizione, della violenza verso se stessi e verso la propria compagna, da un'idea di arte come forma di consumo ed orientata unicamente al guadagno, e che si nutre del valore dell'Amore, e, probabilmente, di una qualche forma di Fede che l'anglicano Waters non realizza e non definisce appieno, ma che appare latente nella dolcezza musicale e nella visione con cui termina l'album, un Aldilà implicitamente religioso.

Un lavoro certamente consigliato a tutti, dunque, anche se per i più giovani è bene inquadrare le vicende con l'aiuto di un adulto e capire che la via della perdizione tracciata da Waters non è un passaggio necessario per giungere a comprendere il Bene, ma è un problema del cantante, che non si pone certo come esempio da seguire.

Chi già conosce l'album - ed immagino siano la maggioranza delle persone iscritte o che leggono questa recensione - riconsideri il lavoro dei Pink Floyd anche dal punto di vista dei valori espressi e dell'interessante strada che, con umiltà e stile, il gruppo percorre per affrancare la propria vita dalle debolezze e perdizioni che hanno distrutto la vita dell'amico Syd Barrett, dandosi una seconda possibilità.

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