Il mercato discografico giapponese è strano ed ambiguo: è ermeticamente chiuso all'esterno (a parte in casi più unici che rari), ma è popolato da gente (anche di altissima qualità) che sa benissimo cosa si produce nel resto del mondo. Per esempio i Plastic Tree. Questa band, che ha recentemente festeggiato il quindicinale dalla formazione, ha regalato al Giappone album meravigliosi che sfonderebbero tranquillamente anche in Occidente... se mai ci arrivassero.
Comunque, veniamo alla recensione. "Puppet Show" è il secondo album di Plastic Tree, è uscito nel 1998 ed i fan della prima ora lo considerano il loro capolavoro. In questo disco i Plastic Tree (cantante/chitarrista, chitarrista, bassista e batterista) riversano filtrato tutto il loro amore per il brit-pop più alto, per la new wave e per tutte le loro passioni; esattamente come hanno fatto gli Oasis in "Definitely Maybe", che già in copertina presentavano un piano programmatico della loro musica basato sul recupero ed evoluzione di quel che loro aggrada.
"Puppet Show" è un disco di paradossi: è composto da un'amalgama molto omogenea di cose diversissime, è suonato da una band giapponese che sembra il terzo gruppo neo-Beatles insieme a Blur ed Oasis, è cantato da Ryutaro Arimura che ha una vocetta così dolce da dare il suo meglio nei pezzi più incazzati (tipo "monophobia"), i brani hanno titoli auto-distruttivi tipo "May Day" o "Zetsubou No Oka" ("La collina della disperazione") e testi altrettanto tragici eppure suonano gioiosi e tranquilli, eccetera. È tutto totalmente contraddittorio, tutto sembra costruito apposta, sembra che tutto sia in contrasto con tutto, eppure il disco incredibilmente funziona: i Plastic Tree mettono in scena il loro disco su una pista circense (come ci ricorda l'incipit "Intro" e l'explicit "Circus") e presentano al pubblico pagante le attrazioni che questi vogliono vedere; non svendono le loro emozioni, ma da bravi clown confezionano esibizioni esemplari per costruzione melodica e contrasto agrodolce musica-testo per mostrarsi al mondo vestiti di ridicolo e rivelare solo una piccola parte di sé stessi.
In alcuni momenti sembra di sentire i primi Cure (tipo in "Gentou Kikai"), in altri i Nirvana (evidenti in "3 Gatsu 5 Ka."), in altri ancora si sentono altre band. È dunque un disco di plagi o, alla meno, di prestiti? Direi di no: il difetto, ma anche il pregio principale dei musicisti giapponesi (in generale) è che sono fuori dal mercato della musica mondiale, ma lo osservano, e quindi con mente fredda possono analizzarla con cura, hanno il tempo per comprenderne le dinamiche e per assorbirle non come forma, ma come sostanza, e per svilupparle aggiungendoci la loro spiccata sensibilità. Pur con le dovute proporzioni, i Plastic Tree sono come J. S. Bach: non hanno inventato nulla, ma tutto è ai massimi livelli; negli album successivi la band inveterà eccome, ma per ora questo album si pone come un esercizio di stile di altissimo lignaggio, e soprattutto si ascolta con enorme piacere.
Fondamentalmente, quindi, "Puppet Show" è un disco meraviglioso con brani meravigliosi sia se il brit-pop fosse esistito sia se non ci fosse mai stato, perché la band giapponese è riuscita ad andare oltre in qualità. Presenta una grande verietà di brani, tutti davvero bellissimi, e se si sentono dei ricordi qua e là possiamo chiamarli sempre citazioni e mai copie, il che salva i Plastic Tree dall'abisso dei gruppi fotocopia e li rende decisamente apprezzabili, soprattutto agli occhi di un mercato occidentale in cui i gruppi ed i cantanti realmente uguali fra loro non sono un problema. Consigliato agli amanti della musica degli anni '90, di cui quest'album è sintesi e superamento.
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