Fra i molti rivali artistici che i Beatles vedevano moltiplicarsi a vista d’occhio approssimandosi la fine degli anni sessanta, i Procol Harum sembrarono a un certo punto fra i più agguerriti e accreditati grazie ad una serie iniziale di singoli stupendi, rapidamente fatti uscire uno dietro l’altro come usava allora, a cominciare da quello in questione che si impose come esordio clamoroso per poi rimanere, pur sgualcito dal tempo, un acclarato evergreen della musica pop.

Quando però cominciarono ad uscire anche i loro album, essi contenevano tanti riempitivi, troppi episodi poco curati ed ispirati. E malgrado un certo miglioramento progressivo, con uscite discografiche di qualità media sempre crescente, a quel punto vennero però a mancare le singole canzoni memorabili, i capolavori, i vertici di produzione con la conseguenza che il marchio Procol Harum perse rapidamente carisma e considerazione, arretrando sempre più nelle posizioni di rincalzo del panorama pop e rock e compromettendo sin troppo la memoria storica di questo gruppo.

La magia di questa canzone ha il suo fondamento nella commistione fra il cantato accorato di impostazione blues del pianista e frontman Gary Brooker e il dominante contro tema, eseguito a tutto volume all’organo Hammond come non s’era mai sentito fare prima da nessuno in un brano di successo, a merito dell’organista Matthew Fisher. Il musicista, ispirandosi garbatamente alla cosiddetta “Aria sulla quarta corda” di Bach, ne trapianta quasi integralmente il movimento discendente del basso (che bassista, Bach! Uno dei migliori…) riuscendo poi a ricavarne una variazione melodica di quasi altrettanta bellezza, meno fascinosa e misteriosa ma più gloriosa ed estroversa.

E’ indubbio che l’avvenenza e la fortuna commerciale di questa canzone siano merito più del contenuto motivico organistico (e del relativo eccellente timbro, reso a giusta prevalenza dal missaggio) che della melodia del canto, per non parlare del testo astruso e insignificante anzichenò, ma erano tempi psichedelici… pure il titolo non scherza: “Un’ombra più bianca del pallido”! Eppure Fisher ha dovuto lottare legalmente per molti anni prima di riuscire a farsi riconoscere il 50% delle royalties per questo brano, per lunghi anni appannaggio del solo collega Brooker che ne aveva scritto la parte vocale, armonia melodia e testo.

Nella copertina, psichedelica quasi quanto il titolo, Brooker è il baffino in primo piano, Fisher la prima faccina a sinistra, seminascosta. Gli altri tre non contano… erano session man assoldati per la bisogna; il gruppo si costituirà in maniera organica proprio a valle dei primi riscontri di grande successo di questo singolo e a quel punto verranno imbarcati un paio di grandi musicisti, ossia il batterista B.J. Wilson (a cui Jimmy Page aveva fatto un pensierino per i futuri Led Zeppelin, prima che l’appena ingaggiato frontman Robert Plant gli facesse vedere come suonava il suo compaesano John Bonham e allora… amen!) e il chitarrista Robin Trower, poi valorizzatosi autonomamente col suo gruppo rock blues.

John Lennon disse al tempo che “A Whiter Shade of Pale” era il più bel singolo del 1967 e, dato che lui nel mentre stava buttando fuori cose come “Strawberry Fields Forever” e “I’m the Walrus”, c’è da credergli, anche perché non soffriva di modestia e mancanza di ambizione.

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