Mo ve spiego Tarantino. Il più grande film, di Tarantino. Più grande di Pulp Fiction, più grande di Bastardi e Kill Bill. Magari non più divertente, non più godibile. Ma questo è il testamento del cineasta, più di così non può dire, perché qui dice tutto. Distrugge il cinema e lo ricostruisce, annienta la storia e la realtà, la falsifica, spiega che le vibrazioni che muovono il cinema non possono partire solo dal cinema: sono fuori, nella vita e nella realtà. E lo dice lui che mangia pane e pellicole, lui che intesse, mai come in questo caso, le sue opere di citazioni e auto-citazioni sempre più contorte e deformanti. Ma c'è autenticità e cuore anche in una inquadratura fissa su un'auto che sfreccia per Los Angeles, e c'è ipocrisia e pochezza in tanto, tanto pseudo-cinema. Quello fatto di giacche tinte e baffoni finti, che sono importanti ma non ci si può fermare a quello. Un caleidoscopio di concetti e immagini sull'orlo della follia, intrecciati in modo feroce, quasi volutamente incomprensibile. Perché qui il regista gira per sé, è il suo lascito. Lo spettatore si adegui, anzi: lo spettatore, come il mondo di Hollywood, è uno degli obiettivi polemici.

Non succede niente

È spiazzante. Fine primo tempo, in sala si accendono le luci e guardo in faccia il mio amico: “Cazzo siamo a metà e non è successo ancora nulla”. L'ho detto, ci sono cascato. Poi ho capito, ma sono sicuro che per molti (moltissimi, visto il successo al botteghino) resterà un film in cui non succede quasi nulla. Questo perché il discorso si fa particolarmente intellettuale qui, è il primo lavoro di QT che non può non essere letto in chiave intellettuale. Attenzione, tutti lo erano, fin da Le iene, ma tutti i discorsi meta- erano camuffati dalla forte componente di genere, che distraeva lo spettatore. Ha sempre destrutturato i generi che ha affrontato, ma per lo spettatore quelli rimanevano film di genere, perché non c'era la capacità critica, o la necessità, di capire che Le iene è un film di rapina senza la rapina, Pulp Fiction è un film di gangster senza una scena da gangster, che Bastardi riscrive le regole dei film di guerra (un film di guerra senza la guerra, anche quello), che Django è un film sul razzismo che disinnesca la retorica del razzismo, che Kill Bill è un frullato di generi che va oltre le regole di ciascuno, li supera tutti in chiave umanistica. La bravura è tale da mettere in secondo piano i concetti. Ma ci sono sempre stati.

Il genere meta-cinematografico è troppo intellettuale e di nicchia (ma tutt'altro che secondario, da Effetto notte ad Ave, Cesare!) per essere appetibile ai palati generalisti. Ma questo è. Un film sul fare film, fatto da chi come pochi altri sa fare film citando altri film. E a dispetto delle più banali attese, non è un'ode al cinema, tutt'altro. Mai Tarantino è stato così affilato, spietato, cinico.

Così si muore

Nei suoi sogni di bambino per le strade di Los Angeles (questo sono le lunghe sequenze in auto con canzoni su canzoni) si insinua il germe della non autenticità. Si parla di come muore il cinema, qui, oltre e prima di come rinasce. Il cinema muore con i tipi come Rick Dalton, o il produttore Marvin Schwarz (Al Pacino), muore coi registi che hanno in mente i baffi e il cappello da affibbiare al loro cattivo di turno, ma non si sognano di costruire emozioni dalle loro scene. Questa Hollywood è già morta, a quest'altezza di tempo. Ci sono gli spaghetti western in Italia, ma Rick è talmente ottuso che in Italia non ci vuole proprio andare.

Il discorso non è meramente filologico e storico. Vale in egual misura oggi. È un discorso programmatico che dice: così facendo, il cinema muore. Non c'è autenticità, c'è tanta vanagloria: serve una vibrazione vera, dell'attore come essere umano e non come personaggio, per smuovere il cinema. Rick, per dare senso al suo ennesimo villain, deve incontrare la purezza di un'attrice di otto anni, deve sbagliare e trovarsi in imbarazzo completo, per rendersi conto del suo imbruttimento umano. Ha un moto d'orgoglio e regala una prova degna, prima del tracollo finale. L'attore è l'uomo.

Dov'è il cinema

Cliff Booth sembra l'amico sfigato, lo stunt che diventa autista e tuttofare della stella cadente Dalton. Lui è il vero eroe, in questo scenario meta-cine. Lui è l'eroe perché non fa cinema, lui è cinema (come il discorso di Superman in Kill Bill). E le sue disavventure sono mini film nel film (in un film che presenta infinite finestre di secondo livello narrativo, questo che è il primo livello è in verità un mosaico di mini saggi cinematografici). Cliff bega con Bruce Lee, vai di arti marziali, Cliff accompagna Pussycat (ascelle pelose) al ranch degli hippy, ci faccio un thriller-giallo di un quarto d'ora, pretestuoso e con finale comico. Cliff si fa di acidi, ed ecco lo splatter surreale perfetto con tanto di cane.

Il regista che mastica pellicola, al suo nono (e forse ultimo) film ci dice due cose: che l'anima del cinema è nelle realtà, è il reale che crea cinema, e quest'arte non può solamente auto-alimentarsi. Lo sguardo deve sempre spaziare all'esterno, perché anche le più piccole disavventure di uno stunt hanno un loro, anche ampio momento cinematografico. Basta lo spunto, basta un elemento, poi è lo stile, il pennello registico a costruire tutto il corollario. E nella sequenza al ranch abbiamo una lezione magistrale su come si crea tensione, a prescindere dal reale spessore di un fatto.

Stile e vissuto

Insomma, bacchetta il cinema autoreferenziale, che si nutre meramente di generi e apparenze. Chiede una visione fresca, al di là, nel mondo, ma che sia artisticamente intonata. Bisogna saper fare il cinema, è una grammatica che va posseduta, senza la tecnica non esiste buona arte. Poi, poco importa che mi racconti di fattoni o di Hitler, di Bruce Lee o Pai Mei. Lo stile è tutto, ma deve applicarsi a una visione autentica, su un vissuto reale, su un sentire sapido e non su una mera ripetizione entro i binari di genere. In fondo Quentin vuole dirci che lui il cinema l'ha vissuto, è un brivido di vita vera il suo, non una speculazione a freddo. Il suo ultra-citazionismo non è mai stanca riproposizione di cliché, è un vissuto che si declina in arte.

L'emozione di Rick Dalton, la sua sfuriata contro se stesso, è questo che gli dà la rabbia per fare una scena degna. Non è il copione, non sono i baffoni, non è lo studio certosino delle battute. Improvvisa pure, ma sii autentico.

Dio con la macchina da presa

Splendida la scena al saloon dove si alternano, senza stacchi, momenti di recitazione e altri di commento, quando Rick dimentica le battute e impreca. Senza stacchi registici il risultato è straniante, perché non vedi la differenza, non cambia l'inquadratura. Lo spettatore resta sospeso. È uno dei tanti giochi tra stile e narrato che propone subdolamente. Per segnalare l'onnipotenza della regia e dello stile. In modo uguale e contrario, decide di mettere dei tagli secchi durante un momento di pausa sul set, quando Rick chiacchiera con un collega. I tagli secchi vengono percepiti dallo spettatore, che sente la forzatura, ma non se la sa spiegare e ipotizza che anche quello sia un film nel film. Ma è semplicemente una provocazione.

Dio con la macchina da presa gioca con il topolino in sala. Quando inserisce lunghi flash back non introdotti, che sembrano semplici alternanze di montaggio. Senza indicazioni, il povero spettatore è perso.

Realtà e finzione, polverizzati

Come è perso nel marasma di tessere che riportano - brutalmente - immagini di repertorio, altre che rifanno film esistiti, altri che inventano film verosimili per l'epoca, oppure citano ironicamente altri film di Tarantino (“Bruciate nazisti di merdaaa!”). Il caleidoscopio non va decifrato, ma bisogna abbandonarvisi. Perché così si entra nella testa di QT, come il flusso di una coscienza che non ha interesse a distinguere tra cinema e vita, perché la vita è cinema e il cinema è vita.

Al pari, le distinzioni tra cronaca dei fatti reali e variazioni furbesche del regista non vanno analizzate criticamente. Non è Bastardi, dove realtà e finzione sono ben distinti come in un romanzo storico. Qui diventa impossibile e inutile verificare tutto, a meno di farci una tesi di laurea. Ma il messaggio è un altro: siamo ben oltre la sfida del 2009. Qui il regista monta e smonta, ibrida tutto, disorienta lo spettatore e lo illude, lo irride, gli impone di smetterla di cercar di distinguere tra vero e verosimile, o anche iperbolicamente inventato. [Spoiler] L'azzardo finale, la beffa più grande, è sottrarre alla narrazione il cuore (ipotetico) del suo film. Un'opera sul massacro di casa Polanski senza il massacro. Spettatore, arrenditi, sono più forte di te!

Sharon Tate ne esce quasi come una scema. Lei è il cinema che si masturba su se stesso, che si riguarda per vedersi splendido e per godere ancora una volta del plauso del pubblico. Questo è la Tate in sala. Una macchina perversa che non ha nulla di artistico.

Ec-citarsi

Lo spettatore non capisce questo film. Ama Tarantino ma per motivi sbagliati. E Tarantino lo massacra. Perché non riesco a definire diversamente le due scene di piedi. Le perversioni di QT lasciatele a lui, non immischiatevi... Ma ormai il suo mito lo precede, e allora lui che fa? Ti spara merda addosso. I piedacci sporchi di Sharon Tate sono questo, così come quelli deformati dal vetro della spettacolare Pussycat.

Mai aveva dialogato in modo così irriverente con le aspettative e con se stesso (“bruciate nazisti di merda”). Questo è un Tarantino che parla da post-tarantiniano. Ormai anche lui è un cliché, un genere, un prodotto da mercanteggiare. Ma lui non ci sta: “Vaffanculo tutti. Ora ve la faccio vedere io. Forza, due ore di film senza una goccia di sangue. Vi piacciono i piedi? Eccoli qua, belli sporchi. Siete bravi a cogliere le mie citazioni? Ora vi renderò la vita impossibile”.

C'era una volta... A Hollywood raccoglie in sé tutto ciò che è (era) Tarantino e lo supera, lo sbeffeggia. Potrebbe essere il suo ultimo film, forse dovrebbe.

A margine: i dialoghi

Non vi tedierò sulla bravura degli attori, sulle musiche (forse fin troppe, ma qui è tutto un trip). Ma sui dialoghi sì. Non sono sempre al top? Non conta. Non è cinema di dialoghi questo, non è importante ciò che si dice. È tutto immagine, estetica, e riflessioni suggerite sottilmente. Non è un film che parla di qualcosa, è un film che parla di se stesso.

9.5/10

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