Come si forma un universo?
Per decenni, mi sono spezzato la schiena e giocato diottrie su voluminosi tomi, mentre i miei coetanei si trastullavano in ben altri trastulli; ma almeno, io, mi sono acculturato e, oggi come oggi, posso riferirvi che sono state propugnate differenti teorie al riguardo, dal creazionismo al modello standard cosmologico, per non dire degli scontri tra brane, dei fantasmi cosmici e dello spazio-tempo superfluido.
La teoria dominante vuole che l’universo, durante la sua nascita, da un punto di infinita densità si sia espanso autogenerandosi; ma diffusa è anche la credenza che l’universo origini da atti specifici di creazione divina …
Ma siccome che questa è una paginetta dedicata all’Italian Hardcore ed ai Raw Power, fanculo queste baggianate del big bang e della creazione.
Perché, in fondo, l’universo hardcore italiano nasce dal nulla all’alba degli anni Ottanta. Sì, dal nulla, perché in Italia mica c’è stato il 1977 – the year punk broke – e non venitemi a parlare di Tampax, Hitler SS, Skiantos, Gaznevada, Kandeggina Gang e Decibel, suvvia.
Ma se tanto mi dà tanto, nulla nasce dal nulla, ed anche il roseto più olezzoso abbisogna di abbondanti palate di letame; e perdonate il fine paragone, messo lì giusto per sostenere che il nostrano hardcore viene fuori puramente e semplicemente da un fenomeno di emulazione di quanto prese piede negli Stati Uniti ed in Inghilterra.
E però è proprio lì, Oltreoceano ed Oltremanica, che coniano questa definizione di Italian Hardcore, per significare che, pur essendo nato per imitazione, questo universo ha caratteri peculiari che altrove non si erano mai né visti né sentiti, per ferocia e corrosività.
Sarà perché la frustrazione e la rabbia accumulate senza via di sbocco esplosero all’unisono, mentre altrove un paio di ondate punk furono una salvifica valvola di sfogo, ma l’intransigenza di Crash Box e Wretched, Cheetah Chrome Motherfuckers ed Upset Noise, non aveva termini di paragone allora, tantomeno oggi.
Poi, non sempre l’intransigenza è buona consigliera, ché nel caso dell’Italian Hardcore fu sovente sinonimo di isolazionismo; così come significò la scelta a prescindere per luoghi di aggregazione e metodi di autoproduzione che si tradussero in qualità tecnica del “prodotto finale” che era meglio un calcio ben assestato nelle parti basse.
Ma, in sostanza, tutti se ne fregarono, e fecero dannatamente bene a fregarsene, perché senza quell’intransigenza l’Italian Hardcore non sarebbe stato, oppure sarebbe stato molto, ma molto meno orgoglioso.
Qualcuno, non ho idea di chi fosse, arrivò a definirlo un massacro mosh, e fa paura solo a dirlo; figurarsi a capitarci in mezzo o solo vederlo raffigurato, come su una storica copertina della hardcore zine TVOR.
E così, senza dare neppure troppo nell’occhio, ho messo in fila ciò di cui si nutriva, quell’universo: autoproduzione, centri sociali, fanzine.
Per poi sputare fuori gruppi pazzeschi come i Raw Power; che a loro volta, nel 1983, sputano fuori quel «You Are The Victim» che, insieme al successivo «Screams From The Gutter», è il solidissimo sostegno della loro piccola leggenda.
Quattordici pezzi, nemmeno ventuno minuti di durata: un massacro mosh, senza dubbio.
‘Sta paginetta, nelle mie intenzioni, vorrebbe essere un massacro mosh pure lei, per cui mi sono dato un tempo limite per buttarla già, ventuno minuti; niente correzioni, buona la prima; e la scrivo mentre il disco suona a palla.
Vinile sul piatto, puntina che si abbassa, primi fruscii e subitanea mazzata hardcore sui trentadue denti (trentuno, ad essere precisi, mi manca il dente del giudizio).
Batteria che suona da schifo (per non dire con il culo), basso altrettanto ignorante, chitarra grezza e fetida. Poi, le bastarde urla di Mauro ad infiammare i padiglioni auricolari.
Una partenza a manetta.
Non posso alzare il volume, è da poco passata l’ora prima, ed allora indosso la cuffia e caracollo per la stanza, inscenando un personale pogo propiziatorio.
Novantacinque secondi, non uno di più, è quanto dura «Politicians».
E poi «Police Police», questa supera di un respiro il minuto di durata.
Intanto, faccio gli scongiuri che la mia ignara consorte non si svegli e non si accorga di quanto sta accadendo; salto sul divano, e mi sbatto come un assatanato. Ho quasi cinquant’anni ma questo disco ha il potere di sconvolgermi tutto.
Mia moglie continua a ronfare, sapesse quel che si perde.
«Burning Factory» ricorda dannatamente la scuola hardcore newyorkese, gli Agnostic Front, tanto per sparare la prima cosa che mi passa per la testa, con un finale deragliante che è manna dal cielo.
Ci stanno schedando, ci tanno soffocando, ci stanno uccidendo.
Le loro menti sono sempre più malate, la repressione ormai è sotto ogni forma.
Stato d’oppressione.
La paura è ad ogni angolo, i bastardi ed i figli di puttana sono ovunque.
Stato d’oppressione.
È il delirio, sono in uno stato di trance che mi porta a fare mosh sempre con maggior foga. Fortuna che «State Oppression» supera a stento il minuto e mezzo.
Dai, avanti, tempo di girare lato, e sono a mezza paginetta scritta in testa.
I Raw Power hanno ancora rabbia e forza da esprimere, tanta benzina in corpo da gettare sul fuoco. Sono grezzi, sporchi ed ignoranti: un debordante incrocio tra i Suicidal Tendencies ed i Dead Kennedys.
Ancora le urla isteriche la fanno da padrone nella rabbiosa e ipervitaminizzata «Death Seller».
Ma il traguardo è vicino: è tempo di «Nihilist» e getto via le ultime energie che mi sono rimaste.
Il disco è finito, la puntina termina la sua corsa, ancora fruscii.
Rimetto a posto il disco e spengo lo stereo.
Butto giù questa paginetta e me ne vado a nanna.
Ci avete capito niente?
No?
Poco male, beccatevi «You Are The Victim»!
Post scriptum
A scanso di equivoci, quello fuori d testa che si sballa con i Raw Power alle due di notte è Margarina.
Testa, per quanto gli concerne, alle dieci è andato a dormire, dopo essersi deliziato sulle note dell’immortale concerto per pianoforte del sommo Maestro Racmaninov.
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