"Os Mutantes são demais!"  

("I Mutanti sono troppo!")  

Così diceva di loro, all'alba della pubblicazione di questo loro primo disco nel giugno del 1968, Caetano Veloso. E per la musica brasiliana del tempo erano decisamente "troppo". Troppo avanti, fal punto di risultare irrispettosi verso le natie tradizioni musicali, se è vero che durante una loro esibizione di accompagnamento a Gilberto Gil durante il Festival di Musica Popular Brasileira nel settembre '67 la gente reagì con indignata violenza. Ah, somma eresia aver l'ardire di deturpare (o modernizzare) il folk del Nordeste con visionarie iniezioni di pop psichedelico targato Beatles! Ancor di più lo era presentarsi in televisione agghindati come neo hippies, con tanto di capelli decisamente troppo lunghi, e canzoni decisamente troppo irriverenti per la società brasiliana dell'epoca (ma non solo). Eppure, se non fosse (anche) per loro, il movimento Tropicalista guidato da Gil e Veloso non sarebbe stato quel caleidoscopico circolo di intellettuali e musicisti che portò una mini rivoluzione in patria, e che posteriormente influenzò (e influenza tuttora) i più disparati artisti contemporanei.

Come tutte le avanguardie, furono all'inizio osteggiati, per poi diventare, incredibilmente, icona transgenerazionale delle più durevoli in patria. Provate a chiedere a un brasiliano medio chi è Rita Lee e vi risponderà prontamente. Un po' meno se chiederete dei fratelli Arnaldo e Sergio Baptista (ma dalla sua la Lee vanta una lunga carriera solista). Ma da cosa deriva tale longevo ricordo?

Sarà il fatto che, senza neanche aver mai visto una tavoletta di LSD, i Mutanti suonavano come un poco plausibile incontro fra Beach Boys, Pretty Things e Deviants. Sarà perché pur infarcendo il primo LP di canzoni di altri (Gil e Veloso soprattutto) le rielaborarono fino a tramandarle nell'immaginario collettivo come pezzi autografi (esempio lampante la fantastica samba-fuzz stonata di "A Minha Menina").

Sarà per altri milioni di motivi, ma non ci interessa saperli. L'importante è poter godere appieno, a 40 anni suonati di distanza, della demenza primordiale di un pezzo come "Bat Macumba", della "Strawberry Fields" in salsa brasileira ("Panis Et Circenses"), del caldo hammond di "Baby", del garage surreale di "Ave Genghis Khan". Interessante notare anche le molteplici similitudini (penso abbastanza casuali) con formazioni coeve e altrettanto poco conosciute, soprattutto con gli United States Of America, riprova della omnicomprensività del fenomeno psichedelia su scala mondiale.

Riscoprire questa piccola pepita dei '60,  esterna alle traiettorie musicali e geografiche anglo americane, è perciò un dovere nonché un piacere.

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