Entrare come chitarrista nella band di tali Thomas Miller e Richard Meyers. E fin qui, direte, tutto rientra nell’ordinario. O almeno, pare.
Un attimo.
Provate a riscrivere la stessa frase, ma al posto di quei nomi scrivete Tom Verlaine e Richard Hell. E nulla rientra più nell’ordinario. Dicesi – peso specifico dei Nomi.
Richard Inferno non sarebbe stato ancora a lungo della partita, per la verità. Attriti con Verlaine, si dice (scrivessi in inglese direi… friction, perché è di quella Band che stiamo parlando), coesistenza impossibile. E invece, alchimia perfetta col nuovo entrato. Due Chitarre che s’incrociano come succede una volta su un milione. Chi sia la prima Chitarra lo si capisce molto bene, eppure… discorsi del tipo prima e seconda chitarra paiono come suonare già vecchi, nel ’77/'78. Il resto è una Storia già raccontata.
E un’avventura che con Adventure arriva al capolinea. Poi dovrebbero cominciare le carriere soliste - o così raccontano di solito le biografie del vecchio rock, quello delle prime e seconde chitarre, quello degli assoli, quello che alla fine dei Settanta si scopre a corto di termini per definire cosa stia succedendo.
“Beh, non è Verlaine, ma…” – è il commento che più spesso ho sentito fare su Richard (e chissà quanto spesso e con quanti abbia avuto occasione di parlare di lui, non vi dico…). E dice tutto o quasi, specie quel ma e quei puntini di sospensione.
Puntini che a vostro piacimento potreste riempire dopo aver fatto girare due o tre volte Alchemy – ovvero, la carta che Richard si gioca in quasi contemporanea col Verlaine di Kingdom Come. La sua occasione. Non ci arriva proprio benissimo, si trascina fra dipendenze di più tipi e anche i primi set sono un mezzo disastro. Quel contratto con la Elektra non sembra esattamente di quelli che resisteranno a lungo. Però, questo disco… però.
Domanda: qual è l’unico pezzo di Adventure non interamente composto da Tom? E’ Days. E c’è un perché. Ascoltata subito prima di Alchemy, dà il senso di una continuità. Struttura semplice (in apparenza), malinconia latente, contrappunti vocali. Già, la seconda voce. Provate l’impossibile: immaginare See No Evil o Foxhole (due titoli) senza backing vocals. A Richard apparteneva una sensibilità melodica che gli avrebbe permesso, una volta andato per la sua strada, di essere: non soltanto uno bravo con le sei corde, ma anche uno con l’intuito di scrivere pezzi di potenziale successo. Potenziale, beninteso.
Quando suona, Richard non è di quelli che fanno pensare all’urlo di mille uccelli. Ma pensarlo sempre a confronto col vecchio compagno di viaggio è qualcosa di limitante, è una croce che – inevitabilmente – porterà in eterno. E che non racconta del raffinato songwriting dispensato in pezzi tipo In The Night e Woman’s Ways, (piccolo capolavoro di byrdsiana memoria, ad elevato tasso-sixties fin dall’armonica). Manifattura power-pop d'alto livello, linee armoniche perfette in cui tutto suona familiare ma irresistibile, e pertugi solisti di pura classe in cui infilarsi sempre al momento giusto. Misty Eyes sono tre accordi di base e una semplicità con poco da invidiare persino al Lou Reed di Coney Island Baby. Niente strumentali, niente cacofonie, niente complesse invenzioni ritmiche. Solo il bel suono di chi non ha certo smesso di ascoltare gli Who perché nel frattempo è arrivato il punk. Anzi.
C’è Blue and Grey che mi fa pensare a Dangerous Type dei Cars - forse per le tastiere, forse per i break di batteria, forse per il 4/4 raramente scontato su cui Ocasek ha costruito un impero. E i due assoli di Pretend (che si può fare, certi termini da “vecchio” rock zeppeliniano vanno pur sempre usati…) è la cosa più prossima ai Television che il disco abbia in scaletta, non a caso buttata giù con un certo Fred Smith – potenziale alternate take di Adventure…? Macché, tanto ma tanto di più. E Dying Words è una cosa newyorkese del ‘79 al 100%, un riassunto di tutto in quattro minuti.
Quale sia stata la risposta di pubblico ad Alchemy, ve lo lascio immaginare. Basterebbe solo aggiungere che Richard l’avremmo ritrovato solo sette anni dopo: non a Manhattan ma in Svezia, non con Fred Smith ma con uno stuolo di anonimi strumentisti locali, e – va da sé – non con la Elektra.
Era un disco di potenziale successo, in fondo.
Carico i commenti... con calma