He died with a Felafel in his hand. Un titolo che potrebbe essere un racconto, come quello di Hemingway, “For sale: baby shoes, never worn”, ma con due parole in più.

Siamo a pezzi. E c’è che la convivenza è diventata una situazione generazionale, un rito tribale, una situazione di interesse antropologico.

Romanzi e serie tv, ricerche universitarie e articoli di costume, indagini giudiziarie e racconti da bar ne hanno parlato. Tuttavia, alcune delle storie più iconiche si trovano dentro questo film australiano.

È un film infarcito di una cultura beat-pop, pulp e bohemian: da Tarantino a J. D. Salinger, passando per On the road e Trainspotting, e poi, da Clercks ad Amori e altre catastrofi, da Dostoevskij e Tolstoj, da Nick Cave ai The Stranglers e una carovana di straordinaria musica rock.

Tuttavia, non è tutto qui. È tutto qui? Ho detto di no.

Non è tutto qui perché i protagonisti sono degli scoppiati e sbandati, sballati e dissociati, artisti e imbecilli, deliranti fuori di testa.

E nei dialoghi i personaggi non dicono la prima cosa che verrebbe normalmente in mente e neanche la seconda. Dicono la terza, la quarta, la quinta, la settima.

E così appaiono illogici, surreali, senza un fine.

Danny: “Vuoi sposarmi?”

Sam: “Non posso, devo uscire.”

Eppure, c'è dentro di tutto: socialismo e peripatetiche, assassini e omosessualità, Nick Cave e suicidi, amore e amicizia.

Il racconto procede così ritmato tra personaggi assurdi, dialoghi da quarto pensiero e un carrarmato di musica rock.

E finisce senza una logica apparente?

Questa volta sì, è tutto qui! Che altro ci dovrebbe essere? Alla fine è tutta un’illusione questa sconcia melma esistenza: siamo tutti, nessuno escluso, dei soggetti che sentono un’idea di infinito nello spirito e, consci della propria finitezza corporea, tuttavia, non impazziscono, ma portano avanti la loro esistenza affrontando dolori e afflizioni, morti e amori disperati.

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