Lo ammetto, dopo aver realizzato che dal 2002 a oggi sono passati vent'anni sono rimasto un po' sorpreso. Un ventennio è un periodo abbastanza lungo, nel corso del quale cambiano molte cose: gusti estetici, mode, partiti politici (quelli spuntano come funghi e si sciolgono come neve al sole). E se quattro lustri non sono pochi per le nostre vite, figuriamoci per la musica, soprattutto se prodotta con strumentazioni elettroniche soggette a continui aggiornamenti e revisioni.
L'evoluzione tecnologica, in particolar modo, ha provocato l'invecchiamento di sonorità che venivano esaltate non solo dal pubblico, ma anche da certa stampa specialistica (penso ai terribili Ruff Ryders e a buona parte dell'hip-hop commerciale uscito intorno al Duemila). Per fortuna non tutto è andato perduto, anzi, ci sono dischi che hanno superato a pieni voti la prova del tempo, lavori per i quali non è fuori luogo parlare di "classici" poiché capaci di acquisire valore se messi a confronto con il presente.
Deadringer di RJD2 può essere inserito in questa categoria. Il debutto di Ramble John Crohn, producer proveniente da Columbus, Ohio, ha perso ben poco del suo splendore e, oltre a confermare la lungimiranza della Def Jux (etichetta che ha segnato l'underground di inizio millennio), può essere ulteriormente apprezzato se paragonato ad alcune proposte attuali (mi riferisco all'universo rap/trap contemporaneo).
Se i giovani produttori, infatti, usano spesso suoni sintetici e dozzinali, RJD2 fa una scelta diversa e decide di saccheggiare campioni ovunque, spaziando dal funk al soul, dal blues al rock psichedelico, senza trascurare magnifici sample vocali e dialoghi tratti da film noir e polizieschi. Questi ultimi, soprattutto, regalano a Deadringer un tocco visivo o narrativo, che non è errato definire cinematografico.
Qualcuno potrebbe dire che i tempi erano diversi e avrebbe ragione: gli anni Novanta erano finiti da poco, l'hip-hop strumentale andava fortissimo e la lezione impartita da DJ Shadow in Endtroducing..... era ancora fresca e tangibile; eppure, dopo essere stati travolti dall'incedere inquietante del singolo "The Horror", non si può che provare nostalgia per quel periodo. Un periodo in cui il beatmaker sembrava un cercatore d'oro, sempre perso tra mercatini e vinili da cui trarre la giusta ispirazione.
Il nome di DJ Shadow non è stato fatto a caso: RJD2, in effetti, assomiglia a un Josh Davis più aggressivo e marcatamente hip-hop. Inoltre, al pari del DJ californiano, realizza un disco quasi interamente strumentale, dove il rap è relegato a soli tre brani (il mio preferito è "The Final Frontier", con quell'irresistibile "the show is over" e le rime di Blueprint, compare di Crohn nel progetto Soul Position).
Il resto è un caleidoscopio dove troviamo di tutto: pezzi scatenati come "Good Times Roll, Part 2", ma anche composizioni ipnotiche ("Silver Fox"), momenti introspettivi e persino tracce malinconiche, a tratti commoventi (la bellissima "Smoke & Mirrors").
Degne di nota sono "Ghostwriter", con la sua alternanza di passaggi soffusi ed epici, e la bizzarra "Chicken-Bone Circuit", un mix di drum nervose e tappeti ambient che rivela un'altra caratteristica di Deadringer: la volontà di spingersi oltre i confini del genere.
Sembrerebbe la descrizione di un album perfetto, eppure qualche difetto c'è, in primis la durata un po' eccessiva (sedici tracce per sessantasette minuti, belli pieni). Niente paura, sono bazzecole che a malapena scalfiscono un lavoro eccellente, assolutamente valido a distanza di tanto tempo.
In conclusione, la morte inscenata da RJD2 in copertina è solo uno scherzo, una boutade tarantiniana: a essere ammazzato, qui, è il "sosia" del vero hip-hop, quel cattivo gusto sempre pronto a colpire, ieri come oggi. E a raggiungere questo risultato è un'opera che è difficile definire "hip-hop" in senso stretto, un suggestivo collage di stati d'animo che, a mio avviso, può essere ricordato come uno dei migliori esordi del nuovo secolo.
Voto del DeRecensore: 4,5
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