Robbie Basho ha convissuto con uno spettro, che si aggirava per le sue stanze quasi ogni notte. Come in un tetro racconto giapponese a tinte forti, avete presente?

Siamo sul finire del Seicento. 1694, a voler essere puntigliosi. — La prendo un po’ alla larga, mi perdonerete. A nord di Kyoto, lungo le anse dell’antico lago Biwa, il più grande poeta dell’epoca Tokugawa, Matsuo Bashō, muore. Colto da febbri improvvise, sul declinare di un perenne, inquieto peregrinare, avrebbe voluto imbrattato le sue ultime carte. Prima di morire, dettò, ad uno dei tanti discepoli che ormai lo accompagnavano, l’ultimo suo componimento:

旅に病んで夢は枯野をかけ廻る

Ammalatomi lungo il viaggio / in sogno vago ancora / qua e , per i campi spogli.

In Giappone, a quell’epoca, si era pian piano affinata l’arte della brevità. Prima, versi iniziali di componimenti più lunghi, i renga, ora i poeti scrivevano perlopiù componimenti in forma di hokku, o haiku: diciassette, solo diciassette, unità fonetiche. Tradotti in una lingua europea, una decina di parole.

In quella penuria, interi endocosmi. Questo stesso anelito, ma in musica, lo si ritrova nel fingerpicking primitivista di Robbie Basho.

Ma questa è una storia, soprattutto, di nom de plume e di simboli. Negli stessi anni del Seicento in cui, figlio d’un possidente e samurai di basso rango, nasceva Matsuo Munefusa, l’allora barone di Baltimore, nella contea di Terranova, Lord Cecilius Calvert, fondava quella che poi avrebbe preso il nome di Baltimora, città indipendente del Maryland. Di lì a poco, Matsuo Munefusa avrebbe preso il nome di “banano giapponese” (芭蕉, bashō) per via d’un albero di banano che verdeggiava accanto alla sua capanna di legno. Scrisse, nel suo romitaggio:

芭蕉 野分 して盥に雨を聞く夜哉.

Un banano nel temporale / il gocciolio dell'acqua nel catino / scandisce la mia notte.

1940, Baltimora, Maryland. Morto un Bashō se ne fa un altro. Anche in quasto caso, Bashō non era un nome di battesimo. Si chiamava Daniel Robinson, ed era un personaggio a dir poco particolare. Era fuori di melone il ragazzo, vi avverto. Quando, appena diciottenne, si ritirò in un romitaggio montano a calarsi del peyote, parecchio peyote, si convinse d’essere una reincarnazione di Matsuo Bashō. Probabilmente, nemmeno sapeva cosa volesse dire, “bashō”. Ma questo, poco importa. Per un americano di quell’epoca, l’Oriente doveva essere un qualcosa di indistinto, di soltanto immaginato, di sentito dire e di inventato. Un calderone New Age per fricchettoni della primissima ora. Ma a questa moda, Robbie Basho è sempre rimasto ai margini, musicista schivo e simbolista. La sua musica è figlia di questo approccio dimesso alla vita. Il suo immaginario è fatto di Mille e una notte, di iracondi principi falconieri, di divinità indù, di tanatologi, di zodiaci, di imperatori cinesi, di primitivismo americano, di cercatori d’oro, di poeti alti funzionari del Gran Khan, di mistici mendicanti, di rabdomanti, di musiche più o meno orientali.

1969. Sulla copertina di Venus in Cancer, danzano immobili una Venere botticelliana ed un granchio antropomorfo. La presa per il culo e il simbolismo vanno a braccetto. Fino a questo momento, Basho ha pubblicato una manciata di dischi per la Takoma, casa discografica di John Fahey. Ma questa è un’altra storia. Soprattutto l’ultimo disco di due anni prima, Falconer’s Arm, è espressione compiuta della sua peculiare Weltanschauung.

A distanza di così poco tempo lo troviamo però cambiato, maturato, rappacificato. Quando Venere è in Cancro la sensibilità si acuisce, si addolcisce e prende un certo piglio di profondità. Che diavolo vorrà dire, poi? Per il bislacco fricchettone Robbie Basho, con una chitarra a dodici corde in una mano e la testa piena di nuvole e di fuoco, qualcosa vorrà pur dire.

In questo disco il suo giovanile ardore per il minimalismo primitivista, per il riecheggiare fantasticato di vecchi bluesmen ciechi, per polverosi 78 giri, per questo rimiscelarsi d’orizzonti tra raga indiani e chitarre acustiche pizzicate con la punta delle dita, trova un’ansa dove scorrere meno impetuoso. Matura in suite così stemperate, dove la stasi d’un impalpabile raga si travasa, si acuisce in sprazzi di dissonanza. C’è poi la sua voce, la sua voce straniante. Gorgheggiante e primitiva.

Tra cattedrali e fiordalisi, dilatate e stinte canzoni d’amore che d’amore non sono e trame e orditi di simboli, in Venus in Cancer Basho ha trovato la quadratura del suo cerchio. Tra melodiosità e dissonanze, in precario equilibrio. Strano modo, certo, di fare del minimalismo con un immaginario colorato e così carico sulle spalle, di nativi americani e di orienti pieni di ninnoli e mondi fantasticati.

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