Mi sono sempre chiesto cosa sia passato nella mente di Roberto Concina, meglio conosciuto come Robert Miles, dopo la pubblicazione del suo esordio Dreamland, capace di fruttargli dischi d’oro e platino in giro per l’Europa e la bellezza di quattordici milioni di copie vendute in tutto il mondo.
Forse è stato il desiderio di scrollarsi di dosso l’etichetta di produttore di brani dance famosissimi oppure la possibilità, garantita dalla raggiunta tranquillità economica, di sperimentare liberamente le più disparate soluzioni musicali. Difficile propendere per l’una o l’altra ipotesi, anche perché il DJ svizzero è scomparso nel 2017 a soli 46 anni (viveva a Ibiza, dove aveva fondato l’emittente radiofonica Open Lab) e non potrà dare una risposta esaustiva alle nostre domande.
Accontentiamoci dunque dei fatti e soprattutto dello scarto che separa il fortunato debutto dal successivo 23am, uscito solo un anno e mezzo dopo eppure così diverso dal suo predecessore.
Chi si aspettava una replica della trance sognante di “Fable” e “Children” è rimasto infatti deluso, perché in questo lavoro, nato tra la fine del ‘96 e la prima metà del ‘97, Robert decide di approfondire altri universi sonori, spaziando dall’ambient dilatata alla chill-out, passando per la drum and bass, i field recording registrati durante il tour di Dreamland e i tentativi, talvolta azzardati, di fondere sonorità elettroniche e strumentazione live.
Quest’ultimo aspetto, insieme alla presenza di atmosfere suggestive, è forse l’unico trait d’union con il passato; per il resto nulla rimane delle casse in battuta e dei bpm elevati tipici del genere, a eccezione del singolo “Full Moon”, in realtà più vicino alla progressive house dei Leftfield che ai soundscape onirici del primo album.
Il mix di elementi di 23am (un nonsense, perché il sistema orario inglese si divide in due cicli di dodici ore e non di ventiquattro) è senza dubbio intrigante ed è arricchito da una struttura concettuale piena di riferimenti alla vita, alla morte e alla necessità di rinascere, oltre a essere impregnato di una certa spiritualità (“Invisible energy provides the key to global understanding”, dice Barbara Prunas in “A New Flower”) e positività (impossibile non notare quel “In the new day that’s coming/Freedom for all is our destiny” cantato dalla mitica Kathy Sledge in “Freedom”). Il problema è che non tutto sembra andare per il verso giusto e varie volte, durante i sessanta minuti di durata complessiva, qualcosa farà storcere il naso agli ascoltatori più attenti.
Già dopo l’intro sospesa e la successiva “A New Flower”, caratterizzata da un arpeggio di chitarra che va a sovrapporsi ai tappeti sintetici, la totale mancanza di batterie e la struttura dilatata delle composizioni rischia di annoiare pesantemente, dando l’impressione che 23am arranchi un po’ e faccia fatica a ingranare la marcia giusta. Sensazioni confermate da “Everyday Life”, un brano tutto sommato riuscito, ma reso prolisso da alcuni interludi ambientali che lo rendono interminabile (dieci minuti sono davvero troppi).
Il sophomore album del producer svizzero si rivitalizza nella parte centrale, grazie a un bel tris convincente: la già citata “Freedom”, forte del featuring di Kathy Sledge e di un ritornello dal sicuro appeal radiofonico; “Textures”, dove le melodie di pianoforte, pur non irresistibili, si intrecciano egregiamente al breakbeat della base; e poi “Enjoy”, che non spicca per l’originalità del testo (“Enjoy what you feel/That’s all that is real/Enjoy what you feel inside” e “If you want to live your life/Live your life in joy” non sono proprio il massimo), ma si distingue per il buon tiro e le strizzate d’occhio all’acid-jazz, garantite anche dalla voce black di miss Sledge, alla sua seconda performance positiva.
Il livello torna a scendere nelle seguenti tracce strumentali, compromesse da sintetizzatori non esaltanti (“Flying Away”), ma soprattutto dall’innesto poco riuscito di strumenti a corda e a fiato, i quali, lungi dall’armonizzarsi con il resto, finiscono per sovrastarlo in maniera eccessiva, andando quasi fuori tempo. Peccato, perché la drum and bass di “Heatwave” e “Maresias” non è affatto male e ricorda quella di artisti contemporanei come Omni Trio.
I battiti aumentano in “Full Moon”, altro pezzo cantato dal mood però più cupo, notturno, adatto a una dedica alla luna e alla sua misteriosa energia ("Full moon, goddess of dreamers/Failed saints, and unbelievers/Full moon, lighting my way in the dark/I’ll follow you, over the wastelands of the heart”). E in molti si domanderanno come sarebbe stato un LP dalle sonorità più club oriented, probabilmente migliore, anche se non ci è dato di saperlo.
La conclusione di “Leaving Behind…” sottolinea uno dei nuclei tematici dell’opera, cioè la necessità di lasciarsi alle spalle il passato e guardare avanti, verso il futuro (“Leaving behind/Without regrets but pleasant memories/What once was/We walk towards tomorrow, free”). Viene però da chiedersi quanto sia costato in termini di vendite e credibilità uno sforzo simile, perché 23am, pur non essendo male da un punto di vista compositivo, è un disco altalenante che ha scontentato non solo i fan della prima ora, ma anche quel pubblico di “elettrofili” al quale Robert voleva puntare. Un autentico flop insomma, che lo ha spinto ad allontanarsi dalla sua casa discografica e a fondare una propria etichetta, la S:alt Records, per la quale ha realizzato progetti ostici e ancora più sperimentali, fotografia di un artista alla continua ricerca di un’identità musicale, probabilmente mai trovata.
Il resto è storia triste, tuttavia rimane il tentativo coraggioso di andare oltre i semplici tormentoni, mettendo in discussione soprattutto se stesso, come nella bella foto di copertina. Una scelta rischiosa, per certi versi controproducente, che trova in 23am una realizzazione in fin dei conti affascinante, anche se non priva di alcune sbavature.
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