Al core, pronunciato all'italiana o all'anglosassone: siamo vicinissimi al core della Slumberland e dei novanta, quelli dei gruppi indie che stavano troppo al di qua dei muri di fuzz per essere shoegaze e far posa, troppo poco sperimentali forse, eppure troppo sornioni e al di là di tutto il resto per piazzare almeno un pezzo in rotazione e lasciarsi ricordare.
Sappiamo che ad essere tutto acquerelli e sensazioni semplici da ostentata malinconia, onirici e melensi, in maggiore profondi e delicati, si finisce in stucchevolezze e diabeti. I Rocketship avranno anche quell'aria pastello-seppia e naif da pop anni sessanta, ma queste otto istantanee Polaroid dal novantasei hanno tutti i bianchi bruciati come quegli organi da Stereolab improbabili, sovrabbondanti e clippanti e tarli della carta hanno mangiato tre minuti di Carrie Cooksey lasciando un vuoto sofferente di demoni rumoristici tra i ricordi. Le chitarre hanno vinto, in generale, ma qui perdono, e se Kevin Shields si fosse dato completamente all'organo, avremmo avuto un Loveless di pezzi come Heather, Tell Me Why, ferma immobile nel suo arpeggio, retta solo dall'onda, con cori di tastiera quasi umani, voce m e voce f che si sposano su ottave diverse - classico - come in Let's Go Away, forse il più bel momento del disco, che annacqua di ronzii sintetici quegli arpeggi di basso e chitarra, agrodolci, un po' da emo-math.
Le melodie twee tra gli ultimi Beat Happening e i Gerbils di cose belle come Crayon Box, ma mai troppo facili, sempre sfuggenti; anche loro avranno contribuito a lasciare l'esordio dei Rocketship in un limbo di cose dimenticate, sepolti dai flanelloni a quadri. I Rocketship sono tornati, quest'anno, ma quasi nessuno era lì ad aspettarli.
Carico i commenti... con calma