La storia è tratta da un romanzo di Roland Topor, Le Locataire chimérique.
Trelkowski, un giovane impiegato, si reca presso un palazzo parigino alla ricerca di un appartamento da abitare. Viene a sapere che la vecchia inquilina, Simone Schule, sta combattendo tra la vita e la morte in ospedale, dopo aver tentato di suicidarsi buttandosi dalla finestra. Quando riceve la visita di Trelkovski e di un’amica, Stella, Simone urla terrorizzata e le sule condizioni peggiorano. Quando, pochi giorni dopo muore, Trelkowski può trasferirsi.
Nel palazzo l’atmosfera è strana e pesante, piccoli dispetti, vendette e calunnie regolano i rapporti tra i condomini: Trelkowski si ritrova a essere osservato continuamente dai condomini e redarguito dal padrone di casa; inoltre, la sua routine viene indirizzata dai vicini sulla routine di Simone Schule. Un po’ alla volta, questi e altri inquietanti comportamenti degli abitanti del palazzo si acuiscono fino a tendere e oltrepassare l’assurdo.
Così, assediato su più fronti, il cortese e paziente Trelkowski vede accrescere le proprie nevrosi: inizia a scambiare la propria identità con quella di Simone Schule e dà il via a una sua allucinata e personale ribellione, caratterizzata da un crescendo di comportamenti sempre più violenti e sempre più autolesionisti…
Della vastissima filmografia di Roman Polanski, penso che i film della cosiddetta trilogia dell’appartamento siano quelli più intimi, emotivamente più forti o perlomeno a me affini; e in questa personale classifica, Le locataire, ovvero L’inquilino del terzo piano, occupa senz’altro la prima posizione.
Nell’inquilino del terzo piano tra personaggi grotteschi o insensibili, figure ridicole o che provocano, sprovviste di qualsiasi forma di empatia per il prossimo, si staglia Trelkowski che nel tentativo di comprendere l’assurdo, mostra uno sforzo umano che lo esclude dal mondo di fantasmi nel quale egli stesso è voluto entrare. Da una parte vi è infatti una forza attrattiva che induce Trelkowski a non svincolarsi da esso, d’altra parte c’è un’opposizione ad esso, attraverso un comportamento civile, uno sforzo razionale a comprendere l’assurdo.
L’inquadratura panoramica iniziale, su cui compaiono i titoli di testa, è in questo senso chiarificatrice, dal momento che tra le finestre del palazzo e dietro esse si nascondono delle figure immobili - uomini, donne o fantasmi - che si confondono tra loro tanto sono sovrapponibili e interscambiabili; tra esse c’è pure Trelkowski, che quindi appartiene a quel mondo fantastico e chimerico, ma prova a trascenderlo prima razionalmente e poi con la sopracitata e disperata nevrosi. Questo sforzo sovrumano del protagonista sarà inevitabilmente vano: emblema di ciò è il fatto che la vicenda si apra e si chiuda dentro lo stesso urlo disperato. Disperata è la condizione umana e sullo schermo si assiste a una chiara allegoria di essa, oltreché d’altra parte della condizione dello straniero, dell’uomo sradicato dalla propria casa.
Un film calibratissimo ed equilibrato nelle sue tre parti narrative ma ricchissimo di scene surreali. Tra le altre, ricordo la scena in cui inizia la ribellione del protagonista, quando in un lago Trelkowski colpisce con violenza un bambino colpevole di aver messo in atto a proprio vantaggio un’azione disonestra, ma, soprattutto, le scene notturne e oniriche che determinano lo scoppio della nevrosi, in cui Polanski ci mostra attraverso inquadrature sghembe l’orrore che ha fatto il nido nella mente del protagonista. E ancora quei visi dei vicini ripresi dall’alto a incutere timore e sospetto…
Insomma, un’assurda allegoria della vita, che con un ritmo inesorabile terrorizza quello spettatore che accetta di fare i conti con i propri desideri e le proprie paure più ancestrali, ovvero di assuemere su di sé il mistero delle cose.
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