Solitamente, quando si pensa ai film più belli dal punto di vista puramente estetico e visivo, si pensa a capolavori come Berry Lyndon o 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick, Quarto potere di Orson Welles, Il conformista o L'ultimo imperatore di Bernardo Bertolucci ecc. Però esistono film sconosciuti ai più che sanno regalare immense emozioni anche con un singolo fotogramma, magari un fotogramma in cui non c'è nulla di particolare se non un paesaggio mozzafiato.
È questo il caso di Samsara di Ron Fricke, un documentario senza parole, solo musica e immagini, del 2011. Girato nell'arco di circa 5 anni in giro per il mondo, è un film che, grazie alle sue musiche, che variano dall'orientaleggiante al tribale alla dubstep (credo? Non mi intendo molto di questo tipo di musica elettronica), e a delle immagini semplicemente meravigliose, riesce a far riflettere senza proferire parola, dice moltissimo senza dire nulla. Se vogliamo, Samsara riprende a piene mani gli esperimenti si montaggio del cinema sovietico degli anni '20, in particolare il celeberrimo effetto Kulešov, poichè il senso e il messaggio del film di Fricke viene veicolato quasi esclusivamente dal montaggio. Mi spiego meglio: spesso le scene sono spazialmente e stilisticamente molto diverse tra loro e rendono il film, ad un'occhiata molto superficiale, un mapazzone (per prendere in prestito un termine tanto caro ad un noto chef). Però è proprio l'accostamento di scene così differenti a dare all'intera opera un senso, che va interpretato e che, dunque, potrebbe variare da spettatore a spettatore.
Personalmente, credo che Ron Fricke, grazie all'accostamento di scene ambientate nell'Estremo Oriente, presso monaci buddhisti, o in villaggi di tribù africane e di scene che mostrano la vita in grandi metropoli, volesse proporre un ritorno ad una vita pacifica, priva della frenesia che caratterizza i paesi più sviluppati: infatti, nelle prime il regista (che ha curato anche la fotografia) usa spesso inquadrature fisse o, comunque, movimenti di macchina molto lenti, mentre nelle seconde usa spessissimo dei time lapse quasi ansiogeni, che mostrano con quanta velocità viviamo le nostre vite. Fricke utilizza la tecnica del time lapse anche in un altro tipo di scena: quelle che mostrano solo ed esclusivamente paesaggi, senza figure umane, facendo sorgere e tramontare il sole in pochissimi secondi. Credo che tra questi due tipi di scene esista un'abissale differenza, nonostante che utilizzino la medesima tecnica: la velocizzazione del tempo in queste ultime non crea ansia e frenesia ma pace e tranquillità.
Ron Fricke, nella seconda parte del film, ambientata esclusivamente nel mondo tecnologicamente ed economicamente avanzato, riprende con uno sguardo estremamente severo l'umanità che popola questi ambienti: dalla produzione di carne in giganteschi "lager" per animali al consumo di cibo tanto gustoso quanto dannoso nei fast food. L'obbiettivo della camera di Fricke è sempre attento a cogliere la drammaticità della vita moderna dei paesi sviluppati, così come lo è a cogliere la poesia della vita dei monaci (credo) tibetani e delle tribù africane.
Credo che la scena chiave di questo documentario sia quella in cui un impiegato inizia a cospargersi di prodotti fangosi, arrivando a somigliare a quei popoli molto arretrati che abitano l'Africa. Ma lui è disperato. Disperato perchè anche se prova ad assomigliare a loro, non riuscirà mai a condurre una vita altrettanto serena e resterà per sempre imprigionato in quel vortice di frenesia e ripetitività a cui ormai siamo abituati.
In conclusione, questo film è un vero capolavoro e, secondo me, il più bel film di sempre dal punto di vista puramente visivo (so già che quest'affermazione scatenerà l'ira di molti). Consigliatissimo ma, al tempo stesso, sconsigliatissimo a chi, come me, soffre della Sindrome di Stendhal perchè potrebbe sentirsi male durante certe scene. A me è capitato. Straconsigliatissimo, invece, a tutti gli altri.
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