In una Società liquida come quella odierna dove tutto sembra diventare desueto in un batter di ciglio e la tecnologia si spinge sempre più oltre abbattendo muri inimmaginabili, dodici anni rappresentando un salto nel vuoto, una distanza importante da colmare. Si vive di chiaccherate anteprime, meglio un singolo ogni tre mesi che un disco ogni tre anni. La gestione del tempo è diventato un fattore decisivo. La fruizione degli ascolti sulle piattaforme di streaming è una grossa realtà con la quale fare i conti.
I Samiam sono un nome ben noto della scena punk rock a stelle e strisce nonostante non abbiano mai fatto i grandi numeri tra le band uscite dal 924 di Gilman Street a Berkeley. Palestra frequentata ad inizi anni Novanta da gente come Jawbreaker, Operation Ivy, Green Day e Offspring. Nomi questi con cui hanno condiviso la scena.
Degni di nota sono i lavori della seconda metà degli anni Novanta “You’re freaking me out” e “Astray” su tutti dove hanno cristallizzato con efficacia quel modo speciale di raccontarsi al Mondo. Umori che vanno ben oltre il semplice punk melodico, creando una formula dove il lato gentile del punk sposa quello più viscerale ed emotivo. Ed è questa doppia anima oltre alla voce di Jason Beebout a renderli riconoscibili da tante altre band fotocopia che dimentichi dopo qualche ora.
E “Stowaway” licenziato dalla Pure Noise Records ci riconsegna i soliti e cari Samiam, con i loro tempi e le loro storie, ma che alla fine dopo tante vicissitudini sono riusciti ad ultimare i lavori.
La partenza al fulmicotone “Lake speed” funge da piacevole sveglia, con i suoi ritmi da centometrista che non stupiscono poi troppo in fondo chi ha familiarità con la proposta, sarà da “Crystalizzed” in avanti che si torna su territori più rassicuranti. Se c’è una traccia che trasuda passione e sudore quella è “Lights out little Huster”, le impronte di Jason e soci rimangono distinguibilissime ancora a distanza di quasi trent’anni. Il dna non mente, 100% Samiam, il flusso continuo di note fa accelerare i battiti.
E i giri sulle giostre ed i saliscendi emozionali continuano senza tregua con una manciata di ottimi numeri tra cui meritano una menzione “Shoulda Stayed” e “Monterey Canyon” con una freschezza notevole, mentre più canonica risulta essere “Something”. Le note dal retrogusto malinconico della title-track sono il colpo di coda finale.
La vena melodica, ci sono anche gustosi assoli, non è per nulla venuta meno. La preghiera è che non debbano passare altri dodici anni prima di poter ascoltare nuova musica.
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