Sudore a frotte, muscoli contratti, scintille che navigano veloci come cavi in fibra ottica nei meandri della corteccia cerebrale, caffè espresso gusto catrame, poghi scomposti sopra i tavolini della prima classe di un Frecciarossa direzione Bologna Centrale…

La facilità con cui riescono a farmi salire l’adrenalina i SOIA è una qualità che non posseggono in tanti. I Sick Of It All sono l’anti-epica, un manifesto rivoluzionario da working class, da piccolo garage di periferia sporco, pieno di attrezzi e cacciaviti e con macchie d’olio sparse ovunque. In un piccolo scenario così iniziarono a suonare da qualche parte nel Queens nel 1986. Erano in quattro: i fratelli Lou e Pete Koller, Armand Majidi e Rich Cipriano. Dopo le qualificazioni si entra subito di diritto nel girone Champions del CBCG, facendo la conoscenza e suonando con i loro stessi idoli.

Una manciata di ep (l’omonimo e “We Stand Alone” tra il 1987 ed 1991) ed a sandwich il primo lungo “Blood, Sweat and No Tears” tutti sotto Relativity Records. Poi nel 1992 viene lanciata la bomba “Just Look Around” che segna anche la fine della collaborazione con l’etichetta per l’approdo su East West Records.

La cosa meno piacevole di “Just Look Around”, probabilmente, è il font rosso e grassoccio di copertina che fa bruciare gli occhi, per il resto c’è veramente tanta carne al fuoco e pezzi quali “We Want the Truth” e “Stand Alone” (rectius: sing along) sono già dei classici. Lo spot-mazzata di “What’s going’ on” è il jolly capace di deragliare dai binari quasi da subito con una velocità di manovra quasi folle. Il confine tra hardcore punk e thrash metal sembra sempre più labile, con la chitarra sempre più satura.
La sensazione che rimane impressa, a parte i tanti notevoli numeri da “Violent Generation” e “Locomotive” a “Shut Me Out”, è quella di un disco molto cupo perfetta visione dall’alto di una metropoli notturna inquinata dai fumi dei gas di scarico, dalle grandi industrie, sporca e degradata. Ed episodi più rallentati ed inusuali come la title-track “Just Look Around” e “The Shield”, in cui il cantato di Lou si avvicina vagamente ad uno stile rappato, rafforzano questa narrazione decadente e stradaiola, rispetto ad “Built To Last” in cui invece usciranno anche fuori le loro influenze oi-punk.

Il punto di rottura, con le relative polemiche, arriveranno presto con la firma major, ma l’unico rumore da ricordare sarà come qui solo quello dei decibel assordanti fuoriusciti dalla chitarra di Pete e i ruggiti di Lou uniti ai ritmi secchi ed incessanti di Armand Majidi alla batteria (“What’s Goin’ On” e “Violent Generation”), senza dimenticare a completare la sezione ritmica, il basso di Rich Cipriano, distorto e spesso in evidenza (“The Shield” e la stessa title-track).

Mettiamola così: non sono ancora riuscito a sciogliere la questione sul quale sia il loro disco migliore tra questo (che tra i tre è quello con una componente hardcore leggermente più marcata), Stratch The Surface e Built To Last, quindi nel dubbio celebriamo questo per tutti, che torto non si fa, visto che siamo di fronte ad una delle pietre miliari dell’hardcore americano degli anni Novanta.

Carico i commenti...  con calma