Ero alla ricerca di un film scioccante, che potesse competere, ad esempio, con l’estremo Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini. La mia scelta è ricaduta su Nel più alto dei cieli, quarto lungometraggio del regista bresciano Silvano Agosti, realizzato nel 1977.

Da tempo ero sulle tracce di questa pellicola rimasta a lungo nascosta, invisibile, a causa dei suoi contenuti blasfemi e provocatori che, nell’Italia dell’epoca, hanno fatto gridare allo scandalo. Per fortuna una nota piattaforma l'ha resa fruibile e, come si dice in questi casi, ho cercato di prendere la palla al balzo prima che fosse troppo tardi.

Nel più alto dei cieli è senza dubbio ascrivibile a quel cinema politico, di contestazione, che tra gli anni Sessanta e Settanta ha avuto tra i suoi esponenti il già citato Pasolini, ma anche Luis Buñuel ed Elio Petri. È una delle opere più bizzarre e weird mai realizzate nel nostro paese, anche se alcuni difetti, a mio avviso, le impediscono di raggiungere i modelli ai quali si ispira (ma non è detto che lo faccia davvero).

La storia è ambientata nella Roma di fine anni Settanta, una città divisa tra sommovimenti di sinistra e immobilità democristiana. In questo contesto a metà strada tra fede e marxismo, una delegazione formata da quattordici persone si reca in udienza dal Papa. Nel gruppo c’è un po’ di tutto: preti, suore, politici, bambini, un mix piuttosto vario di laici e religiosi. Dopo i convenevoli di rito, la compagnia entra in un ampio ascensore per salire ai piani superiori ed essere accolta dal Pontefice (perché un Papa non può che trovarsi in alto, come recita uno dei personaggi). Ed è così che avviene l’imprevisto, il plot point che trasforma il sogno in un incubo, il Paradiso in Inferno.

Uno dei componenti schiaccia il tasto UP e l’ascensore, apparentemente in movimento (il numero dei piani aumenta fino a raggiungere cifre assurde), si blocca, impedendo ai malcapitati di uscire. È l’inizio di un viaggio che ha come meta gli abissi nei quali può sprofondare l’essere umano. Le prime crisi di panico si evolvono infatti in follia, nel delirio che spinge uomini e donne a compiere abomini di ogni tipo, dalla pedofilia all’omicidio, fino a giungere a una regressione animalesca che poco ha da spartire con il candore della scenografia e con le orazioni trasmesse in filodiffusione (o forse sì, chi può dirlo).

Nonostante gli ottimi propositi e la potenza di alcune inquadrature (i primi piani sui volti sempre più emaciati, indemoniati, morenti), Nel più alto dei cieli è un film che si può considerare solo parzialmente riuscito. Prima di tutto è poco chiaro il discorso politico: se in Salò il fascismo diviene metafora dei soprusi di ogni potere (che è invece anarchia, come ricorda Pasolini), qui il discorso è troppo legato al periodo post-sessantottino e risulta datato, a tratti abbozzato. Anche la scelta di girare molte scene in un solo ambiente alla lunga non paga: è apprezzabile il contrasto tra l’ascensore asettico, pieno di luci accecanti, e le azioni bestiali compiute dai personaggi, ma bisogna aggiungere che il meccanismo del kammerspiel è stato gestito meglio in altre occasioni. Infine è impossibile non menzionare il finale raffazzonato, forse imposto dalla produzione per evitare problemi più gravi dei quattordici anni di sequestro della pellicola (quattordici, come i componenti della delegazione).

Al di là di questi aspetti, Nel più alto dei cieli colpisce per il suo tentativo di dipingere un’umanità abbrutita, la quale, messa in una situazione di evidente difficoltà, si lascia vincere da pulsioni ferine e antisociali. Un accenno va fatto anche la colonna sonora di Nicola Piovani, caratterizzata da sonorità lounge e rilassate che, accostate ad alcune scene terribili, trasmettono una sensazione di forte straniamento.

In conclusione, la quarta fatica di Silvano Agosti non raggiunge pienamente i suoi obiettivi, tuttavia, pur risultando inferiore ai contemporanei lavori di Pasolini e Petri, stuzzicherà gli amanti delle visioni underground. Come il sottoscritto.

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