Dio santo fermate quest’uomo, deve stare male, non permettetegli di fare più musica perché le cose sono due, Alexi Lahio o ha sbattuto la testa, quindi lo perdoniamo, o tutto insieme è diventato una sanguisuga sempre pronta a cercare di chiedere più soldi, altri non so come mai abbia dato vita ai Sinergy, che diciamocelo senza mezzi termini o inutili giri di parole, fanno pena.

Sinergy, da quanto si può leggere in giro per internet altro non è che un “super gruppo” di cui fanno parte oltre al nostro malefico Alexi, anche Kimberly Goss, Roope Latvala, Lauri Porra e Janne Parviainen, i quali si dilettano a propinarci un power metal/pop iper melodico e zuccheroso fino alla nausea.

Al di la della totale mancanza di originalità nelle melodie, ciò che non va è il continuo plagio a Nightwish, Stratovarius, Sonata Arctica e tutte quelle band che si sono prodigate, mannaggia a loro, nella diffusione di uno stile stanco che ha detto tutto, o quasi, quello che c’era da dire. Gli ingredienti sono dunque sempre gli stessi: assoli di chitarra velocissimi, batteria in doppia cassa stile rumore di un elicottero in volo, voce in più di un caso tanto alta quanto piatta, basso relegato ad un compito minore, risultando così poco udibile.

“Suicide By My Side”, questo il titolo dell’album del 2002, inizia niente po’ po’ di meno che con un soave scatarro che ci introduce a “I Spit On Your Grave”, nella quale riaffiorano da subito tutte le influenze di cui prima scrivevo, con un particolare richiamo ai Nightwish, dai quali i nostri hanno deciso di copiare “Wishmaster”, celeberrimo brano preso dall’omonimo album del 2000.

Si segue con pezzi più heavy come “The Sin Trade” o “Violated”, entrambe dotate di un buon riffing e di atmosfere insolitamente pesanti per essere canzoni power, con un’ottima interpretazione, specie nel primo pezzo della cantante, che si dimostra aggressiva e mai intenta a copiare le altre colleghe. Approdiamo poi alla fantasmagorica “Me, Myself, My Enemy”, una di quelle cose che ti fanno chiedere “perché?”, si perché davvero qui c’è da chiedersi se la band abbia davvero speso tempo per comporre un tale abominio musicale, una cosa tanto brutta da sperare che finisca il prima possibile.

Il resto del platter segue sulla scia delle banalità sentite fin ora, con risultati per lo più discutibili, anche se appena migliori di “Me, myself…”, pur attestandosi su livelli decisamente miseri, non fosse per la prova tecnica del gruppo e per la produzione, degna della Spears, che rialzano appena appena le sorti di un disco che definire modesto è un eufemismo.

Bocciati senza alcuna remora, sperando che il bimbo di Bodom la finisca di prenderci in giro in maniera così poco decorosa.

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