Mi costa scrivere una recensione su questo album, perché la politica restrittiva della Rough Trade che mi ha impedito di uploadare il mio giradischi con la red vinyl edition di English Tapas, mi ha infastidito.
Cioè, cose che manco quando ho caricato un mash-up usando Fireworks di Katy Perry e dopo tre secondi mi ha citofonato l'FBI.
Sinceramente questa roba del “non siamo su youtube” ha scassato un po' le balle.
Premessa: ma a noi che cazzo ce ne frega della british vision di un duo di squilibrati che raccontano la loro Inghilterra, la loro Brexit, la loro visione sulla multiculturalità, il loro odio-amore verso il successo raggiunto e il tutto in un inglese dialettale incomprensibile?
Ancora una volta il fascino all'ombra della Union Jack, torna a bussare alle porte e non a caso Andrew Fearn, il musicista del duo, espone fiero sul petto una t-shirt con la scritta “Continuo a odiare la Thatcer”.
A quella donna, per ciò che è riuscita a creare nell'immaginario collettivo della contro-cultura, dovrebbero farle una statua d'oro. A lei e alla Regina.
English Tapas, nella sua struttura, non racconta niente di nuovo rispetto ai lavori precedenti e al penultimo, acclamato “Key Markets”.
Questo duo di buzzurri ha fatto centro e, album dopo album, sta creando un coro unanime di consensi, al grido di anti-hype che farà anche un po' neo-punk ma sempre costume è.
Per me, che sia contestazione o idilli pacifisti, rosari di buone parole, è sempre - per dirla con Rino Gaetano - questione di fatturato lordo e classifica che sale: oggi sullo store degli Sleaford Mods le tazze sono 20% off.
E Malcom Mc Laren guarda sornione da lassù, mica no.
Certo, c'è aria di concerti pieni, la produzione dell'album è più curata, si intravede una certa ironia, un uso di “suonini” che mi ha ricordato (soltanto in questo aspetto) qualcosa dei Devo.
A tratti potrei anche affermare che in Drayton Manored hanno dissato l'anima di David Bowie:
“A trip to Spar is like a trip to Mars”.
Magari è solo una mia paranoia, ma pare che Jason Williamson faccia anche un po' il verso alla voce del Duca o, semplicemente, è una mia fissazione. O, magari, ha cominciato a provare a mettere qua e là qualche nota cantata.
Io però sono curioso e pare che qualcuno abbia già evidenziato una certa “presa in giro” del duo nei confronti del compianto Bowie. Poi leggo un'intervista a un fratello Gallagher che afferma: “Non ci sarà mai più un altro Bowie, perché ormai ci sono robe tipo gli Sleaford Mods”. Gli stessi avevano ammesso di non sopportare gli Oasis: “Non hanno mai fatto niente per i giovani e per la classe operaia; solo canzoni per fighetti”.
A me non piacciono gli artisti che mi dicono le cose della vita. Non mi fido più. Non voglio l'evangelo della dottrina dei giusti, non nell'arte. Non mi interessavano i cantautori impegnati, per brevità chiamati artisti, né quelli che sposano cause. Non mi interessava Luigi Nono che parlava ai compagni proletari con le sue avanguardie per pochi intenditori e neanche, in questo senso, gli Sleaford Mods che parlano di problematiche con la nazione ma soprattutto con se stessi, dissando qua e là, fino ad arrivare a Ringo Starr (Please Please Me Dead bingo. Brexit loves that fucking Ringo), colpevole di aver speso buone parole sulla Brexit.
C'è da dire che al di là della palese contraddizione tra “rompi il sistema” e “cala il prezzo del merchandising”, accettando il gioco delle parti, in questo momento gli Sleaford Mods, rappresentano una voce fuori dal coro.
Aspetto che in Italia sembra evitato come la peste.
Ragionavo, infatti, sul fatto che qui in Italia, oltre il “rubano tutti”, non è che abbiamo mai avuto artisti capaci di fare la voce grossa. Dobbiamo rovistare in qualche live-set per pochi intimi negli anni che furono, ma sui grandi numeri non ricordo nulla di eclatante. Salverei giusto gli Elio e le Storie Tese quando depistarono il concerto del primo maggio con una versione di “Ti Amo” poi brutalmente interrotta da Mollica che doveva far raccontare a Ricky Gianco i suoi trascorsi rock. In quei cinque minuti di esibizione, riesci ancora a sentire l'odore del tritolo che di lì a breve avrebbe sconvolto la nostra nazione.
Una realtà simile a quella degli Sleaford Mods, anche nella struttura (elettronica e speaking voice, che fa molto scuola Suicide, almeno nella sua accezione brutti sporchi e cattivi, mica Wagner), poteva essere quela degli Offlaga Disco Pax, che personalmente ho adorato all'inverosimile, ma sono il primo a riconoscere che la narrazione della periferia emiliana effetto lomo, con l'eroina, le puttane, il pompino, la macchinetta delle caramelle colorate, atleti compagni cubani, stragi, fascisti e ultras, alla lunga, era diventata un po' ripetitiva e anacronistica).
Gli Sleaford Mods hanno invece la pretesa di voler migliorare le cose, porcoddiando qua e là come in quei pub dell'Inghilterra looser dove il gentismo dilaga, eccome.
Dove un tempo l'anarc-vegan-anticristianesimo dei Crass faceva faville. E io, stronzo, che preferisco la poesia di London Calling.
Alla fine di questo viaggio che parte da Nottingham, avremo chiaro il punto di vista molto radicale e poco chic sull'Inghilterra contemporanea e potremo chiamare i nostri amici che da quindici anni servono hamburger al McDonald's e aggiornarli su questa pazza, pazza Inghilterra.
E magari, loro che hanno buone ragioni di interessarsi alla faccenda, potrebbero trovare certe considerazioni, molto più utili rispetto a noi, incuriositi dal sound, dallo stereotipo o dal word of mouth che li ha portati a noi.
Una cosa va detta: Jason Williamson ha una poetica istintiva, animalesca, ipnotica. Una metrica che, di suo, ha tutti i crismi del buon flow: un condensato di hip hop e fuckin'away che ti rapisce.
Non mi sento di chiamarla “voce generazionale”, ché questi c'hanno un secolo in due ma c'è da dire che i quarantenni di oggi sono i ventenni di quarant'anni fa e probabilmente mai come nella storia, questa nostra (pure mia, ahimé) generazione ha ancora il compito di tracciare linee e solchi motivazionali.
Questo non è un album che puoi ascoltare e basta e giudicarlo per le linee di basso. Ci sono testi, protagonisti, incomprensibili da ascoltare, se non leggendoli. Perché anche se ciò che dicono non sposterà di un millimetro il mio domani, un motivo ci sarà, se questo vinile è finito sul mio giradischi (e non su youtube, per via delle restrizioni. E io che vorrei tanto fottere il sistema).
Sicuramente riconosco alla band un'estetica, una novità sulla struttura della forma, mi piace la voce del leader carismatico, a metà strada tra un hooligan e un ubriacone sdentato ottaugenario di Dover che smadonna davanti alle sue bianche scogliere. E in fondo è la voce narrante di un'Inghilterra abbastanza confusa che grazie al fascino british mai domo, arriva fino a noi. Un altro tassello da aggiungere al puzzle inglese dei Crass, dei Clash, del "brown period" di Jonathan Coe. Che dire: diamogliene atto, sono più fighi di noi che in 40 anni di DC, 20 di Forza Italia e 5 di manicomio criminale, siamo riusciti a tirar fuori giusto "La terra dei cachi" e qualche nostalgica polaroid su Ustica, Radio Alice e la Uno Bianca.
Mi piacerebbe sperare che un giorno anche noi avremo i nostri Sleaford Mods. Puntavo molto sullo scenario hip hop, ma questi non fanno altro che dissarsi tra loro per aumentare volume di insight: sembrano una telenovela o quando ti trovi nel mezzo di una lite tra sconosciuti. Forse, e gliene do atto, il duo di Nottingham ha un'urgenza: quella di comunicare, utilizzando una forma davvero ben riuscita. Poi, la "brand new cadillac" gliela auguro pure. Avranno la compiacenza di ritirarsi dalla scene.
Riconosco che in questo momento, rappresentano il meglio del genere e che nulla accade per caso.
Neanche il fortunato "bingo" di questo sporco duo.
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