Spires That In The Sunset Rise - Beasts In The Garden 2015.

Chi avesse seguito, nella prima metà degli anni 2000, quel movimento new folk weird americano, certamente non si sarebbe fatto sfuggire gli Spires That In The Sunset Rise. Una band strutturalmente anomala e temporalmente anacronistica, specie nell’utilizzo degli strumenti. Nonostante la forza del movimento sia con gli anni un po’ scemata, questo duo femminile di Chicago, Kathleen Baird and Taralie Peterson, tiene duro e questa ultima uscita si pone come un monumento ad uno stile maledettamente evocativo, penetrante e, per certi versi e nella sua accezione musicale positiva, disturbante e spiazzante. La loro musica vive di piccoli soffi, è ricca di minimalismo, è ricca di quella intensa ciclicità rimandabile agli studi di Terry Riley, solo che invece dei sintetizzatori e dell’elettronica, qui tutto è sostenuto dal sassofono, dal flauto e dall’harmonium. Il senso di stordimento è forte, per far capire l’impronta si potrebbe richiamare i grandissimi Comus e mettere tra le loro fila la mai troppo valutata Nico, oppure pensare a forme di folk maritate con libertini e leggeri schemi di free jazz, con una spruzzata di acida trance. Ma se la descrizione dell’ascolto è possibile, risulta invece molto difficile descrivere la forza e la leggera irruenza di certe trame che, una volta entrate, tendono a restare nell’orecchio, cullato da una melodia al contempo povera, semplice e straordinariamente appagante. Solo sette brani per neppure quaranta minuti di musica davvero poco ortodossa, con schemi tanto liberi da allontanarsi dallo stile “canzone” in maniera decisa e definitiva. Le free form introdotte dal sax e dal flauto, unite alle più ferme e schematiche situazioni vocali, generano atmosfere trasognate, generano un afflato onirico e trascendente, dove il candore delle trame vocali è solo appena intaccato da una sapiente e misurata sporcizia. Nelle parche e sottomesse percussioni si avvertono tribalità lontane di pellirossa americani, e su tutto i segnali di fumo delle voci, comunicazioni ancestrali, tra mente e anima, tra arcani riti iniziatori e propiziatori: l’anacronismo che diviene estraniante modernità. “White On White” è un esempio deciso di tutto questo, ma anche la splendida “Portabittaclog” più vicina allo stile Nico, è ben rappresentativa. Da citare anche “Promise Land” con il suo andare rotolante tra Riley, Hassell e un free-jazz-core minimale e a tratti stentato. Poi c’è “Schluss” una sorta di moderna unione Fripp-Eno con il sax a sostituire il synth e il flauto a sostituire il frippertronics per la creazione di paesaggi e terre lontanissime, forse irraggiungibili. E anche la title track, con rientri di new age e ambient, merita, eccola: https://vimeo.com/129954123 Consigliato, bello, nuovo in molti sensi.

Sioulette p.a.p.

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