L'ultima recensione su questo sito l'ho scritta nell'estate del 2021. Dopo tanto tempo fermo, sempre impegnato a lavorare (sgobbare come dice mio papà), ho sentito il bisogno di mettere di nuovo nero su bianco i miei pensieri. Il disco che ho scelto è un disco minore nel senso di meno conosciuto, ma certamente l'ho fatto conoscere approfonditamente a mia moglie perché recentemente l'ho fatto girare sul piatto del vinile svariate volte. Per ricollegarmi al tema "lavoro", ecco, la situazione tipica a casa mia negli ultimi mesi è la seguente: finisco di lavorare e il ho bisogno di prendermi tempo solo per me. Allora in questi casi mi piace ascoltare qualcosa di lungo, che si sviluppi orizzontalmente per svariati minuti. Però Amarok di Mike Oldfield, così come Crossing di Herbie Hancock, il Koln Concert di Keith Jarrett o Close to the Edge degli Yes li ho tutti ascoltati fino a saperli a memoria ora. Così vi racconto che un giorno mi sono messo a cercare musica nuova nel vastissimo e validissimo catalogo della ECM in particolare della divisione JAPO, specializzati in quelle correnti trasversali della fusion meno rock e più "barock" (pessima battuta che mi permette di illustrare che la ECM non rientri nei canoni della produzione "alta" standard).
Scorro scorro scorro le pagine di Discogs, ascolto piccoli assaggi e poi eccolo! Micus. Ma sì qualcosa ho già sentito di suo...
Ultima informazione su di me. Quando trovo un nuovo musicista che mi possa interessare inizio ad ascoltare dal primo elemento della discografia, per qualificarne mentalmente il percorso musicale una volta giunto al termine della discografia. Così ho fatto anche per lui e sono giunto alla personalissima conclusione che il miglior lavoro suo l'abbia fatto nel suo secondo disco annata '77, di cui vi parlo oggi.
Micus con questo suo secondo disco tira fuori un pezzaccio lunghissimo e alcuni più brevi e un poco meno validi.
Iniziamo dalla suite "As I Crossed a Bridge of Dreams", che è poi come inizia il mio LP. Venti minuti e rotti di dinamiche. Ascendenti, discendenti, laterali. Note buttate, lanciate e appena appoggiate. Altre pestate pesantemente. Si parte dalle profonde valli del silenzio fino a raggiungere esplosioni al limite dell'esaltazione.
Cantando in una lingua inventata, non dissimilmente da altri contemporanei, si pensi ai Magma, ma con un intento che sembra essere differente meno "personalistico" e più antropologico, questo lavoro fa pensare subito al caldo mediorientale e alle civiltà morte ormai da millenni. La strumentazione è tutta suonata dallo stesso Micus che sfoggia un numero elevato di strumenti alieni alla tradizione occidentale. Il pensiero quindi corre alle epiche di Gilgamesh o alle immagini di quella Persia lontana che oggi è Iran. Subito, dall'inizio quelle corde gentili che suonano accordi arabeggianti suggeriscono degli arabeschi, vividi di momenti che non abbiamo mai vissuto ma che ci sembra di sì. Quando finalmente entra la voce al quinto minuto la magia si compie, ci può parere di conoscere benissimo questa lingua inventata, ma non è così, ci pare così familiare, ma non lo è. La magia sta tutta nell'interpretazione, non riconosciamo le parole ma la forza che esprimono, stando a metà tra una preghiera, un invettiva e un canto di festa, lamentose e vere (per quanto siano a tutti gli effetti invece "finte").
Mentre ci si abitua all'effetto ci si può anche rendere conto della chitarra, che parrebbe non aver nulla a che fare con il resto della strumentazione, ma che invece serve efficacemente a tener ancorata la musica ad un centro ritmico. Un incontro tra culture diverse potrei per altro azzardarmi a dire, ma in fondo non essendone sicuro mi limiterò a trovare appunto efficace a portare a casa il risultato del brano.
Intanto si continua. Ci si abbassa di intensità, si lascia che i silenzi si riempano di riverbero, poi si torna su, poi di nuovo giù...
Al minuto 12 circa ecco che l'agognata cavalcata inizia: quasi una cacofonia di assoli singoli sommati gli uni agli altri per creare una massa, presente e tattile, di elementi contrastanti. Un fuoco che brucia nella notte. Poi si spegne e rimane solo l'odore di fumo ed incenso. Le stelle e gli ultimi pianti. Infine un'ultima cavalcata, che però non parte, è solo accennata, come per lasciare un amaro in bocca.
Borkenkind è molto più acustica e credo sia stata pensata a modi di "pulirsi il palato" e la mente prima di passare oltre. O un introduzione, molto più semplicemente, dal momento che introduce il lato B. E' molto più ambient nel senso di quell'immagine a cui pensiamo sempre quando parliamo di ambien acustica o anche di New Age. Però anche qui un paio di idee interessanti ci sono. Amarchaj è interessante nel suo essere così quieta, così sottotono, leggermente "drone music" considertato per quanto tempo vengono sostenute le note degli strumenti a fiato utilizzati. E' anche proto Civilization. Sì, lo conoscete quel gioco categoria God Game che ormai deve essere ormai alla quinta o sesta iterazione dove si prende il controllo di una nazione per portarla alla prosperità? Dai, Age of Empires se preferite. Ecco, quando si inizia nel periodo preistorico, cioè l'inizio di ogni partita, i suoni che si sentono sono estremamente simili a quelli proposti qui. Intimi e quasi desolati, con riverberi pazzeschi. Di contro ha che questa sembra tutto sommato la meno ispirata tra le canzoni del progetto, un po' anonima e come già detto sottotono. Si può skippare tranquillamente. For the Beautiful Changing Child è un altro paio di maniche. Già da subito mi sento trasportato in un altro luogo diverso dai precedenti e da quello della suite cioè nelle steppe Mongole e non so neanche io bene spiegarvi perché. Forse l'influenza dell'immaginario collettivo, forse quei fiati che ci allontanano dal medio oriente per portarci a quell'oriente. Ma non può essere Cina, che per quanto millenaria e misteriosa, non è COSI TANTO misteriosa. L'impatto puramente emotivo del brano è quello di suggerire che da un momento all'altro debba succedere qualcosa di allo stesso tempo indecifrabile e catastrofico a rompere la serena quiete descritta bene dalla leggerezza del flauto. A suggerire l'ambientazione mongola però non è solo questo ma il fatto che il brano seguente For M'sher And Djingis Khan porta il nome del mongolo più famoso di sempre. E qui si ritorna alle vette della suite, musicalmente ma anche per bellezza intrinseca.
Chiarifico che tutte le altre canzoni del lato B si lasciano ascoltare, però beh non è che ti lascino poi molto anzi a tratti sembra lascino il tempo che trovano. Io lo imputo al fatto di essere prevalentemente basate sui fiati, che è qualcosa di già sentito molte volte (anche se alle orecchie del 77 deve essere apparso appena più moderno di come lo è ora). Laddove invece il cantato si accompagna con strumenti a corda il tutto si accende di più, non so perché. Questo ultimo brano ne è la prova, riesce a riportare il tono su i livelli dei primi 20 minuti e le due tracce fanno un po' da cornice a cose meno importanti.
In definitiva potete tralasciare tranquillamente tutto quello che segue la prima canzone però quella ascoltatevela perché vale. E vale pure l'acquisto del lavoro complessivo, tutto sommato.
Chiudo con un altro aneddotto personale. Ho una carissima amica nata in Italia ma da genitori del Pakistan. Lei è stata perentoria nei confronti dell'album: "Sembra che il tizio abbia trovato degli strumenti mediorientali nello scantinato e abbia deciso di fare la sua interpretazione dell'idea (sbagliata) che aveva di quel mondo. La musica asiatica è ben altro". Probabilmente avrà anche ragione lei, alla fine che cazzo ne sò io che sono nato lontano. Però ecco, se tutte le imitazioni "exotica" di quelle atmosfere fossero fatte con altrettanta cura come quella che ci ha messo qui Micus oggi non vedremo con così tanto disprezzo, forse, questo genere. Quello che vedo io in Implosions, al di la della veridicità o meno delle sonorità, è una precisione considerevole nel costruire dinamiche e azzeccare momenti musicali sospesi nell'infinito. E poi a volte uno c'ha voglia di viaggiare senza muovere le gambe. spaparanzato sul divano, dopo lavoro, con una IPA ghiacciata tra le mani e dimenticare tutto.
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