Vale la pena provare a capire perché un cinema come questo esiste e prospera. Verrebbe facile ergersi su una torre eburnea e giudicare dall'alto, tagliare di netto ogni discussione come una falce che pareggia tutti i fili d'erba, senza distinzioni. Sicuramente film così non stimolano la nostra mente, non ci fanno riflettere, non ci chiedono sforzi conoscitivi. Ma qualcosa fanno, se è vero che siamo al sesto o settimo capitolo di una saga che conta miliardi di incassi.
Cosa succede nella testa degli spettatori durante quelle due o tre ore davanti al grande schermo? Se le sinapsi non galoppano per capire temi, per esplorare trame, forse fanno qualcos'altro. Nel caso specifico, penso di aver individuato alcuni elementi.
C'è la vista, innanzitutto. La visione non è mai un aspetto banale per la settima arte e qui ci si può divertire a esplorare con gli occhi quelle strane architetture metalliche che compongono i tanto vituperati robottoni alieni. È qualcosa, che siano le trasformazioni, o il design di questi assurdi marchingegni, guardare avidamente quella ferraglia in qualche modo appaga, non è un aspetto secondario.
Nel caso di questo titolo, c'è un secondo fattore non indifferente. Il cinema, arte che attraversa un periodo di difficoltà per quanto riguarda la gestione dei capitali più sostanziosi (dopo la rivoluzione cinecomic, che però sono in fase calante), per assicurarsi incassi rassicuranti punta sempre di più sulla nostalgia. È diventato quasi un genere a sé, titillare i ricordi di quelli che vent'anni fa erano ragazzini. Non è un caso che escano film su Barbie, Super Mario, e via dicendo. Nel mio caso, ero curioso di rivedere quei "Biocombat" per i quali mi svegliavo alle 6 di mattina, a dieci anni, pur di gustarmi le puntate in tv.
Il resto viene da sé. Le trame così semplici non fanno altro che seguire rigorosamente le funzioni di Propp, per non sottrarre troppo sforzo alla visione estatica e all'ondata emotiva della nostalgia che rivive. C'è poi un corollario di fattori che seguono semplicemente le mode del momento: la cultura black che va per la maggiore (due protagonisti afroamericani), il superamento della donna-oggetto con una protagonista ben distante dalla classica Megan Fox; un certo esotismo di fondo, che ci porta in sud America, fino a toccare (maldestramente) le tematiche dell'ambientalismo (la convivenza coi popoli indigeni in villaggi di capanne).
C'è un'emozione che viene avanti, semplice, magari pacchiana, sostenuta da impalcature che vanno sul sicuro, nelle storie e negli scenari. Non mi sono sentito derubato di quei 4 o 5 euro, ma ho pensato che la cura posta nella grafica e nel design poteva essere messa, in parte, per ingentilire un poco anche gli elementi ritenuti secondari dalle major. Ad esempio: il linguaggio di strada del protagonista scapestrato non deve diventare macchiettistico; la filigrana "etnologica" è da valorizzare meglio, non semplicemente buttarla sul tavolo del buffet; le strutture narrative classiche devono meglio declinarsi per evitare incongruenze che un poco stonano.
Insomma, il circo dei robottoni può esistere, ha un suo senso specifico, ma quello che si chiede è di investire qualche dollaro in più anche sulla scrittura, perché un ordito estetico così sfavillante (per chi apprezza) rischia di essere sfilacciato da storie mal congegnate o mal dipanate. Buttatelo qualche soldo per gli sceneggiatori (non è un caso che di recente abbiano organizzato un grande sciopero). Suvvia!
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