Diciamocelo, Blackcocks è un mezzo pacco. Musicalmente, la più cocente delusione del mio primo anno universitario. Perché sì, gli Strung Out hanno (avevano, ma non si può mai sapere) sempre quel problema: punta di diamante del triumvirato pop-punk ultratecnico con Pulley e Ten Foot Pole, i cinque di Simi Valley hanno sempre alternato buoni album a lavori mediocri, incapaci di tenere a freno la loro anima catchy, spesso sputtanata in episodi che è eufemistico definire kitsch.

Blackcocks fa parte delle mezze fetecchie, è chiaro. Con un'aggravante: ha un'anima da gattamorta. Te la fa vedere ma non te la dà.

Mi spiego: 8 maggio 2007. Esce il primo singolo, "Calling", che fa sbavare. Doppio pedale, tecnicismi, epica badreligioniana in crisalidi thrash. "Finalmente ci siamo", gongola barzotto il me fresco ventenne, "l'ago della bilancia tra hardcore melodico e onanismi metallici, senza le pacchianerie di Exile!". Se poi gironzolavi per la rete, l'hype eruttava: "Blackhawks Over LA: gli SO abbracciano il metal estremo", praticamente una bestia a metà strada tra i Celtic Frost e un marò assaltatore. Almeno stando a Punkadeka.

Insomma, sperma a fiumi.

Ma.

Arriva giugno, mese della verità.

Ricordo un pomeriggio pessimo: mi aspettavo altre 13 Calling (se non dei Carcass prestati inspiegabilmente al pancroc), invece mi ritrovo tra i padiglioni un dischetto moscetto, poppettino, perfettino. Apre "Calling", appunto, che ti promette il mondo: a mio avviso, la loro miglior canzone di sempre. Poi tutte fanno a gara a chi delude meglio le aspettative. Oddio, la titletrack e "Party in the Hills" si difendono ancora abbastanza bene, ma poi il vuoto.

Una sequela anonima di stilemi pop-punk freschi come canederli. Mero autocitazionismo dei buonissimi album che dieci anni prima avevano decretato la loro ascesa: manca l'effetto sorpresa; le soluzioni arrancano, sfiancate dal peso pachidermico del déjà vu. Zero fantasia. Basti la numero 5, che col suo piglio prepuberale e l'agghiacciante ritornello one hit wonder pare digerita e cagata dai Bowling for Soup.

La débacle è imputabile un po' a tutti, anche a quel Jordan Burns che, seppur un po' fiacco nei live, era stato sempre impeccabile in sede di registrazione. Qui, spesso, le soluzioni ritmiche non convincono: i corpulenti fill di batteria di "Dirty Little Secret" si sposano malissimo con un'innocua filastrocca che starebbe stretta ai New Found Glory; in "The King Has Left the Building", l'alopecico batterista riesce a sputtanare l'unico riff metal del lotto con un puccioso e strasentito midtempo che rende credibili gli A Day to Remember.

Ma pochicazzi, il colpevole numero uno è Jason Cruz. Annoiato nelle linee vocali e nella stesura dei testi, si perde nel (presunto) mito di se stesso, ammorbato da un perenne 1998 e da un'ipotetica "Matchbook" in loop. I vent'anni passano per tutti, caro il mio canadese: non puoi parlare di geopolitica in un brano utilizzabile solo per far da colonna sonora a uno schiuma party ("A War Called Home"). Non puoi inventarti una linea vocale tanto sciatta da gettar via tutto il buono espresso strumentalmente da "Orchid". Per di più, imitando (male) Paul Di Anno. Ma, soprattutto, NON puoi contribuire in maniera determinante alla creazione di quell'aborto duodenalsonoro che risponde al nome di "Downtown". Ecco, a descrivere "Downtown" non ci provo neanche. E' come quando cadi nell'abisso. Non descrivi l'abisso. Non puoi, non riesci. Descrivi lo strozzato terrore che ti trascina verso l'ineluttabile.

Così è per "Downtown": si può descriverne solo la mestizia, la purulenza, la lebbra auricolare che suscita. Grossomodo, sembra un 69 tra Paolo Limiti e Floradora, ma in 4/4.

Insomma, con questa release gli Scoppiati lasciano una bella sgommata sui mutandoni (e se non era per "Mission Statement" l'insufficienza ci stava tutta): pacchianerie al top, testi sciapi: perché tutto quest'arrovellarsi il gulliver sull'attualità, rega'? Vi riesce molto meglio parlare di vampiri, alienazioni e riesumazioni di figa (ennesima controindicazione dell'amministrazione Bush: coazione a parlare di politica, spontaneità ai minimi storici e album un po' così. Non a caso anche The Empire Strikes First era tutto tranne che perfetto).

Un po' più di umiltà e di riflessione non guasterebbero. Avessero fatto un solo album tra Exile e Blackcocks, gli Strung Out, avremmo tra le mani un capolavoro. Invece pacta sunt servanda e la Fat Wreck,  evidentemente, è più major di quel che vuol sembrare.

Il prepuzio del Fatty nazionale parla chiaro. 

 

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