Non traggano in inganno blastbeat e chitarroni: il più grande pregio/difetto degli scoppiati di Simi Valley è sempre stata quell'indomabile anima mielosa, sfacciatamente kitsch e radio friendly. Del resto non hanno mai fatto misteri sulla loro linfa pop: Jason Cruz ogni due per tre si perde in lodi sperticate ai Beatles e al surf dei Sixties.

Il vero problema è controllare, addomesticare quest'indole, evitando che sfoci in nenie intollerabilmente catchy o in altre amenità vistosamente pacchiane. Exile In Oblivion ci riesce solo in parte, siglando un passaggio interlocutorio dopo la svolta crossover dell'eccellente "The Element of Sonic Defiance" e del buon "An American Paradox".

L'album in parola (erano anni che sognavo di scrivere "in parola") registra la volontà degli Strung Out di definire un suond nuovo ed originale, un ricercato marchio di fabbrica lontano dagli echi pop-punk degli esordi: intento sicuramente lodevole, ma purtroppo qui ancora lontano dalla definitiva messa a fuoco. Intendiamoci, non che sia un brutto lavoro, ma salutarlo come il non plus ultra del 2004 è sicuramente azzardato.

L'inizio è da urlo: il cameo di Elle Fitzgerald è istantaneamente polverizzato dal sincopato groove di "Analog", piombo fuso in cui annaspano sentimentalismi liquidati dalle nevrosi in sedicesimi del più caustico dei Rob Ramos. Si sente che qualcosa è cambiato, c'è la voglia di osare. "Blueprint of the Fall" te lo urla, bandito il fancazzismo da terminal preppie dei Ten Foot Pole. Il doppio pedale di Jordan Burns è un perenne tributo a Lombardo e Benante, echi di Samiam e Naked Raygun si amalgamano alla perfezione nel più thrash dei post-hardcore: arrivati al bridge in controtempo di "Katatonia" inizi davvero a credere che i cinque abbiano trovato la quadratura del cerchio. Pensi che tutto sia perfetto.

E il resto del cd, per adesso, non fa nulla per smentirti: l'hardcore a metà strada tra thrash e Boysetsfire di "Her Name In Blood" è una favola che si schianta contro l'urlaccio assolutamente gratuito di Jason Cruz, che trova nell'imperfezione il suo stato di grazia. Il ritornellone sing along raggiunge livelli assurdi di tamarritudo, lo ammetto, ma c'è chi può permetterselo: questa scheggia dissonante e polverosa certo non sfigurerebbe in una tarantinata à la Grindhouse.

Tutto studiato alla perfezione, nei minimi particolari: anche gli alvei più tranquilli regalano piacevolissime sorprese. "Angeldust" si stempera nei suoi arpeggi e nel fade out della coda, mentre "Vampires" cauterizza le ferite perché poi arriva lei, la canzone che sognavi da anni. "No Voice of Mine". Artificiale e aliena. Litanie d'amore in codice binario. Xenomorfi che sospirano vita. Hiroshima.

Basta. Il giocattolo si è rotto. E' vero, nessuno si lamenta quando "Anna Lee" riesuma Virginia Madison, ma poi tutte le buone intenzioni si impantanano nei banali déjà vu che seguono, pacchiane parodie del bel tempo che fu. Le parite durano 90 minuti. Un giorno lo impareranno anche gli Strung Out. Inebriati dal sussiego, si producono in una "Scarlet" che non è nulla più di un'anonima ballatona senza idee martoriata dal più becero sing along; midtempo trascinato ad minchiam in cui Jason svolge il compitino, non sapendo più dove andare a parare. Il copione si ripete puntuale in "Swan Dive", plagio più o meno conclamato dei Pulley che può al massimo ambire al magro ruolo di comparsa. E' tutta così, la seconda parte di Exile. Il kitsch regna sovrano. Poche idee e grande trascuratezza nell'arrangiamento, che spesso si traduce in una sterile gara di virtuosismi tra la sezione ritmica e le due chitarre soliste, sicure di aver ormai già calato la mano vincente. A cosa serve, per esempio, cambiare cinque volte il ritmo in "Never Speak Again", a parte cercare di soddisfare intollerabili velleità "prog"? E poi basta con questo piano. Un fade in di pianoforte e tutto si permea di quella vacuità radical chic che salva in corner anche il più improbabile degli avanzi di balera. "Du' palle questa! Non dice un cazzo." "Eh sì, oh, ma senti che si sono evoluti. Cioè, c'è un piano."; "Oh, ma che merda gli Yellowcard." "Sì ma senti che evoluzione. Cioè, il piano." Scampoli di vita vissuta, eh sì.

Gli Strun(g)z sono tutto ed il suo contrario, e questo è forse il loro album più rappresentativo, nel bene e nel male. Geniali perle seguite da cagate pazzesche. Certo, le velleità da prime donne sono alla luce del sole, ma li assolvo. Loro ci hanno messo la faccia. Hanno rischiato. Ed hanno rimediato una vittoria di Pirro. Ma la storia non necessariamente deve sempre ripetersi. Ed infatti il 2009 arriverà presto.

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