Mi sono sempre fidato del mio istinto quando devo ascoltare e poi recensire un disco nuovo; un numero limitato di passaggi sul mio impianto stereo e posso ritenermi pronto, avendo acquisito tutto quello che occorre per capire la musica creata dal singolo interprete o dal gruppo in questione. Ma questa volta non è stato così; ed ancora la colpa è di Aaron Turner e dei Sumac band Post-Metal-Doom-Sludge-Ambient che ha creato dopo la conclusione della carriera degli Isis. La stessa cosa è avvenuta ormai una decina di anni fa con i Greymachine e con l'unico album pubblicato: quel Disconnected che vedeva Aaron affiancato da Justin Broadrick dei Godflesh. Un lavoro che mi ha letteralmente tormentato per anni visto la sua pesantezza, la sua inudibilità. Posso senz'altro affermare che lo stesso è avvenuto con What One Becomes, secondo lavoro in ordine temporale dei Sumac. Per settimane l'ho ascoltato in casa ed in auto restandone frastornato a causa della sua imponenza in grado di spezzarti le reni; pur sapendo benissimo a che cosa andavo incontro, visto la mia perfetta conoscenza dei personaggi coinvolti in questo claustrofobico progetto. Un'ora di musica per soli cinque brani; già questo può bastare per quantificare il peso specifico dell'album; registrato in parte in una Chiesa sconsacrata con la produzione affidata a Kurt Ballou dei Converge. Sembra di avere a che fare con una mutazione del DNA prelevato da Neurosis, Isis e di tutto quel Post-Metal così tanto in auge nei primi anni del nuovo millennio. Un suono quello creato dai Sumac spietato, tentacolare, gigantesco; giri di chitarra stridenti che non finiscono mai e che mantengono la tensione elevatissima nell'ascolto. Poi d'improvviso mollano la presa ed entrano in territori di una pacatezza ambient di soleggiato respiro; un continuo alternarsi di opposte sensazioni. Nero e bianco; guerra e pace. Una macchia di nera pece campeggia in copertina; non mettono nemmeno i titoli dei brani che devi andare a cercare all'interno del booklet; difficoltoso anche seguire i testi per il barbaro suono della voce di Aaron, prossimo ad un growl quasi incomprensibile. Suoni di una profondità abissale che ti costringono a guardarti alle spalle; fanno paura, creano panico. Ed è quello che vogliono. Un ascolto complesso e di enorme difficoltà come avviene nella conclusiva "Will To Reach" che con i suoi nove minuti e quarantotto secondi è il pezzo più breve del lotto. Nei primi momenti lambiscono territori già toccati negli esordi degli Isis; un Post-Sludge fangoso, infernale che si trascina fino al cambio di direzione. Il brano sembra terminare perchè per qualche secondo nulla si sente; ma sono ancora vivi ed è il suono di una lontana chitarra ad innescare l'ultima parte dove cambiano ancora rotta. E questa volta è l'Apocalisse conclusiva perchè toccano addirittura lidi Grindcore-Noise da rasentare la totale follia. Mai sentito nulla di simile, credetemi...BLACKOUT...
Ad Maiora.
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