Mad Chad & Sunwatchers...
Mad lo conosco bene: gonzo giornalista, avanguardista rustico, inventore di strane macchine musicali, scrittore che nessuno tradurrà mai. I Sunwatchers invece mai cagati, roba capish jazz, a quanto pare.
Il disco è un tributo a Minutemen, Doug Sahm, Henry Flynt: tre caratteri, tre intelligenze, tre ecosistemi.
Col tre che diventa uno facendo lo spelling di una parola che al momento non mi viene e probabilmente mai mi verrà.
Ah, vedo che ho ripetuto tre volte il termine "mai". Di solito mi capita con il poi...
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“Al contadino non far sapere quanto è buono il formaggio con le pere”. Bene, lo scopo di questo disco è invece esattamente l'opposto: farglielo sapere, farglielo sapere eccome.
Che qui groove metallurgico e rumoristica free si annusano, si strusciano, si confondono. Al punto che alla fine non sai più cosa sia pera e cosa sia formaggio.
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Li conoscete i Minutemen, vero? Piccoli tsunami di materia sferragliante e schegge di vetro.
Il trattamento Chadbourne innesta robuste dosi di capish things e accarezza il tutto “con un guanto chiodato”. Possibile che aggiungere caos al caos sia la cosa più sensata da fare? Direi di si, anche perché, se non mi sbaglio, meno per meno fa più.
L’avanguardia si traveste da ancella del rock’n’roll, una specie di colf che per fare ordine mette a soqquadro. Eppure tutto scorre. Tutto fila via liscio come l’olio.
Forse rispetto all’originale si attenua la sensazione di sparo in piena faccia, ma vuoi mettere quando il fiume metallurgico si disperde in rivoli alla Albert Ayler?
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Poi, mentre nell’aria elettrica ancora son sospese le ultime scintille Minutemen, ecco che Chadbourne lascia la voce da fumetto e ci sbatte in faccia un recitativo da brividi. E’ “Chicano, soy chicano”, struggente inno dei desperados firmato Doug Sahm.
Già, Doug Sahm. Omaggiandolo Sunwatchers e Mad Chad tolgono le tute ignifughe e gli occhiali da saldatore e si gettano in un suono che svaria tra tex mex, country, blues. Un calderone ribollente, ma in fondo abbastanza classico. Il lato solare dell’anima rock, un’energia buona, un fottuto piacere. Del resto, ci informa Eddy Cilia, Doug era uno talmente vivo che probabilmente non si è ancora accorto di essere morto.
Con Henry Flynt, prototipo del capish musician, tute e occhiali servono di nuovo. Il solo brano a lui dedicato, il più lungo del disco, parte come un blues trascendente, ma si trasforma ben presto in una furiosa querelle tra Velvet e free jazz. Qualcosa di molto, molto simile a un'apoteosi. Al punto che ci vorrebbe il dr Adder, insigne geologo del Debasio, per decifrare questo magma incandescente.
Ecco, Doug e Henry sono dei signori nessuno, gente che occupa appena un trafiletto nelle bibbie rock. Io stesso non ne so praticamente nulla. E quindi grazie, professor Chadbourne, grazie davvero.
Trallallà
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