Tanto per ribadire ancora quanto gli ormai lontani anni sessanta e settanta siano stati irripetibili (anche) per la musica, è sufficiente focalizzarsi nel settore del pop: i sessanta ci hanno donato i Beatles con Stones al seguito, i Beach Boys e i Mama’s & Papa’s, Simon & Garfunkel… nei settanta invece si è goduto e si gode ancora al ricordo di gente come 10cc, il giovane Elton John, gli Sparks, il miglior Bowie e tanti altri fra cui, a pieno titolo, i Supertramp.
‘Sto disco però è del 1985, cronologicamente l’ottavo di una carriera iniziata agli albori del precedente decennio ed è soprattutto il primo senza più Roger Hodgson, chitarrista pianista e cantante, vero fulcro poppettaro del gruppo, il quale aveva inopinatamente salutato la compagnia l’anno prima per mettersi in proprio (senza troppa fortuna). Via lui, la leadership si concentra nelle mani del pianista organista e cantante Rick Davies, un tipo più da rhythm&blues americano, o almeno da british blues londinese, bello terragno e ironico per quanto il suo alter ego Hodgson fosse invece mistico e hippiesco.
Era proprio la miscela fra le loro due anime ed espressività così diverse a fornire ai Supertramp il propellente per un repertorio gustoso e sfaccettato. Alla maniera di Lennon e McCartney con i Beatles, l’amicizia/rivalità fra le due specie molto distanti di uomo e di musicista faceva il bene del gruppo. Privo della sponda di Hodgson, Davies riesce a tenere discretamente botta in questo disco, mentre i successivi al contrario mostreranno invariabilmente la corda, facendo scivolare progressivamente i Supertramp nelle retrovie del successo e della popolarità.
L’album inizia in maniera fantastica con il perfetto groove soul bianco di “Cannonball”. Le biografie narrano che i compositori Davies e soprattutto Hodgson usassero imporre alla loro sezione ritmica arrangiamenti già completamente sviluppati anche per i loro strumenti, nota su nota per il basso e fino ad ogni singolo colpo di tom per la batteria… Purtuttavia resta il fatto che sia Bob Siebemberg l’americano del gruppo dietro ai tamburi, che il bassista scozzese Dougie Thomson sono splendidi musicisti, e questo rotolante riff è la loro apoteosi di carriera. L’unico problema di “Cannonball” è che viene portata avanti troppo: dura quasi otto minuti e, considerando che si sviluppa interamente sull’unico accordo di SOL minore… Questa cosa riconduce il discorso al fatto più generale che il disco contenga solo sei brani, qualcosa in più di quanti Davies era solito anche in passato mettere negli album dei Supertramp, ma stavolta non ve ne sono altrettanti di Hodgson!
Così quest’opera viaggia molto alla maniera progressive, con diversi brani tirati (troppo) a lungo prima fra tutti la suite eponima (discreta, niente di epocale) di oltre sedici minuti, che va a costituirne il gran finale. Di ambientazione storica, le liriche di quest’ambiziosa canzone se la prendono con la Guerra Fredda al tempo ancora incombente, ma il momento forte è costituito dal contributo di David Gilmour che, accettando l’invito del gruppo, un bel giorno varca la porta dello studiolo di Davies portandosi dietro una delle sue Fender e il solito suo armadio di effetti e amplificazioni. Al tempo i Pink Floyd erano in stand-by ed il loro chitarrista aveva tempo per collaborare a musica altrui a lui gradita, cosicché ecco i tipici suoni lunghi ed il tocco da maestro di David su di un disco dei Supertramp (francamente tutt’altro che epocale anche questa ospitata, ad essere obiettivi).
Un’ultima osservazione va fatta per la qualità della registrazione e della produzione di David Kershenbaum: è pressoché perfetta, esaltante. Questo disco è degno di servire come dimostratore per impianti stereo… il rotolio spettacolare di “Cannonball”, con i tamburi e piatti di Siebemberg ripresi come meglio non si potrebbe nonché basso e pianoforte senza un Hertz di frequenza fuori posto, riesce a comunicare un compiuto piacere fisico, al di là di ogni possibile gusto strettamente musicale.
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