“Nottambuli”, Il quadro di Edward Hopper, del 1942, ispirato ad un locale del Greenwich Village, nell’insegna una marca di sigarette a buon mercato, tra linee nette e volumi segnati da una luce vivida, offre la vista di una strada deserta e alcune figure isolate all’interno del bar: un uomo di spalle, un cameriere chino, una coppia che ricorda Lauren Bacall (meravigliosa!) ed Humphry Bogart nel “Grande Sonno”. L’osservatore è tagliato fuori dalla scena.
Non mancano certo i “quadri narrativi” nelle canzoni di Suzanne Vega, il contrasto fra interiore ed esteriore, la solitudine, anche nella coppia, i ritratti quotidiani di persone e cose, passanti, soldati, nereidi, gitani, crepuscoli.
La luce fioca che attira e trascina attraverso deboli sfumature. Parole semplici, fragili che incespicano ed irretiscono; non puoi non seguirle, non desiderare di afferrarle.
La sua delicatezza quasi irreale è impetuosa.
“Solitude Standing”, nel 1987, è stato il mio primo ed immediato approccio al cantautorato, avevo 14 anni. Una folgorazione versi come:
“There's a woman
On the outside
Looking inside
Does she see me?
No she does not
Really see me
Cause she sees
Her own reflection”
(da “Tom’s_Diner).
Certo lei non taglia fuori l’osservatore dalla sua musica, ma lo attira a poco a poco, con garbo. Sensazione che rimane negli anni.
La songwriter, il cui stile Folk paga inevitabilmente dazio a Joni Mitchell, che può essere accostata a Dory Previn e, come anima affine, a Laura Nyro, ha per modello narrativo Leonard Cohen molto più che Dylan.
A metà degli 80, la chitarra acustica sempre in primo piano era anche fuorimoda, un hapax, per non dire di quel suo intimismo esacerbato, o di quel canto lieve, sussurrato, per nulla virtuoso, al più misurato. Eppure, quasi inspiegabilmente, le arrise un certo consenso commerciale tanto che finì per aprire la strada a buona parte della scena femminile degli anni 90. Elevò la fragilità a categoria estetica.
Suzanne Vega nasce a Santa Monica, California, nel 1959, a due anni va a vivere a New York, nel quartiere di Spanish Harlem, con la madre ed il padre adottivo, Ed Vega, uno scrittore portoricano, che la indirizza agli studi letterari. Accantonata la passione per il balletto, cresce artisticamente nei locali del Greenwich. Esile e flemmatica, bohémien con innocenza, pare da subito una paladina del ghetto, sincera e credibile.
L’album di debutto (“Suzanne Vega”, 1985) e il successivo “Solitude Standing”, gli album da avere, che la rappresentano al meglio, sono prodotti sapientemente da Lenny Kaye, chitarrista di Patty Smith e compilatore delle ”Nuggets”. Qui, invece, ecco “Retrospective: The Best of”, A&M 2003, ad epigrammare una carriera contraddistinta da un folk colto e moderno, che ha sempre mantenuto una certa aura poetica nei testi ed una coerenza stilistica di fondo, pur attraverso disorientanti cambiamenti. Già perché dal 1992, con il produttore Mitchel Froom, di lì a poco suo sposo, si misurerà con intrecci elettro-acustici di modernariato urbano, sbilanciandosi con arrangiamenti “techno”, tra synth e drum machine, ma, fortunatamente, anche allineando ospiti di spessore come Richard Thompson e David Hidalgo (Los Lobos). Dimostrando quantomeno coraggio. “Nine Object of Desire”, del 1996, spinge quel linguaggio verso il lo-fi. Il passo successivo, “Songs of Gray and Red”, segna un ritorno al Folk più convenzionale.
La collezione in oggetto, più pingue ed esauriente del precedente best “Tried and True”, ma con tutti i limiti artistici del caso, racchiude varie perle, passandole eterogeneamente in rivista. La prima da ricordare è “Left Of Center”, brillante collaborazione con Joe Jackson, un fiore capitato accidentalmente nella New Wave e nella colonna sonora del film “Pretty in Pink”. Non la si trova in nessun album da studio. Dall’esordio splendono, nella loro insostenibile esilità e bellezza, “Cracking”, “Small Blue Thing”, “The Queen and The Soldier (Live, Nyon 1991)” e “Marlene On the Wall”:
“Even if I am in love with you
All this to say, what's it to you?
Observe the blood, the rose tattoo
Of the fingerprints on me from you
Other evidence has shown
That you and I are still alone
We skirt around the danger zone
And don't talk about it later
Marlene watches from the wall
Her mocking smile says it all
As the records the rise and fall
Of every soldier passing
But the only soldier now is me
I'm fighting things I cannot see
I think it's called my destiny
That I am changing
Marlene on the wall”.
Il poster di Marlene Dietrich, l’angelo azzurro, osserva con derisione l’amore di una coppia che è la somma irrisolta di due solitudini.
Da “Solitude Standing”, l’album dove la Vega appariva dietro a un vetro smerigliato, l’autobiografica “Luka”, cioè “luce”, nome emblematico per parlare di abusi sui minori, il crimine più orribile al mondo. Poi le distanze si riducono fino alla quiete in “Gypsy” (“We strangers know each other now / As part of the whole design”) e nell’eterea “Calypso”:
“My name is Calypso
And I have lived alone
I live on an island
And I waken to the dawn
A long time ago
I watched him struggle with the sea
I knew that he was drowning
And I brought him into me
Now today
Come morning light
He sails away
After one last night
I let him go”.
Questi brani paiono elegie alla pioggia, canti su vapori sgocciolanti lungo vetri infreddoliti.
La ballata “Tired of Sleeping” è un altro sussulto. Il consueto arrangiamento domestico qui si arricchisce dell’organo:
“Oh Mom, the old man is telling me something
His eyes are wide and his mouth is thin
And I just can't hear what he's saying
Oh Mom, I wonder when I'll be waking
It's just that there's so much to do
And I'm tired of sleeping”.
C’è spazio per la popolare versione Acid Jazz dei D.N.A. di “Tom’s Diner”: inizialmente “abusiva” venne adottata dalla nostra, facendo ballare il pubblico delle discoteche su versi inconsueti ed “aulici”. È tratta dal ben più incantevole brano a cappella che chiosava il secondo LP, incluso a sua volta nel bonus CD della versione inglese di questa retrospettiva, accanto a cinque pezzi live e ad “Anniversary”, unico brano nuovo.
Poi la raccolta si puntella con le canzoni diciamo “sperimentali” sulle quali si impone “Woman on the Tier”, che con le sue percussività cacofoniche, ricorda il Tom Waits di “Bone Machine”. Il piano strimpellato delle strofe di “In Liverpool” ha fatto scuola e, nel ritornello, lascia spazio ad uno scioglilingua imperioso ed appassionante. “(I’ll Never Be) Your Maggie May” segna al meglio il ritorno al Folk classico con una melodia titillante.
Insomma, un omaggio alla carriera di una artista defilata, ma importante nella canzone d’autore americana, che di recente ha dato alle stampe “Lover, Beloved: Songs From An Evening With Carson McCullers”, nono album in studio, dedicato alla scrittrice statunitense, che peraltro le rassomigliava molto.
Suzanne Vega è un po’ il coraggio nella debolezza. Autrice di canzoni diafane, trasparenti, pulite. Di una bellezza che ha, nei momenti migliori, solo linearità e tenui sfumature. Altrove vanamente nascoste.
Carico i commenti... con calma