Abito al sesto piano di un palazzo ai piedi del quale resiedono gli uffici del provveditorato. Proprio qualche minuto fa ero sommerso dalle urla di professori precari manifestanti contro Brunetta, riforme scolastiche e un certo Malaguti, che suppongo sia il preside dell'istituto cui questi docenti fanno parte.

Nulla da obiettare a moventi e loro nobili intenti, ma francamente le loro grida mi hanno decisamente spellato lo scroto a colpi di carta vetrata. Sono a finestre chiuse e in questi giorni inizia pure a fare caldino, ma li sento ugualmente ronzare per la stanza. Prima stavo addirittura pensando di lanciare qualche secchiata d'acqua, non so, pomodori, ma, come detto, non è il caso: dopotutto, qualunque cosa stiano dicendo, sono d'accordo con loro, con la loro avversione nei confronti del governo.

Per contrastare irruentemente l'aspetto meno piacevole della parata vissuta passivamente, ho tirato fuori il vinile di "Blonder Tongue Audio Baton" e l'ho messo su a volume intollerabile. Intollerabile persino per assidui frquentatori di rave, suppongo. Certo, più tollerabile dello strepitio della folla imbufalita che circondava casa mia nemmeno avessi commesso un delitto. Ma tant'è.

Gli Swirlies sono leggenda, comunque. Hanno all'attivo diversi album con i quali attravesarono gli anni novanta uscendone indenni, vivi.
Pensai a loro proprio per continuare a sperare di uscire da quel frastuono indenne, senza uscire di testa.

Succede che nel 1993, quando venivano comparati ai My Bloody Valentine, gli Swirlies sfornano il loro capolavoro, "Blonder Tongue Audio Baton" (Taang!, 1993). Uno schiaffo in faccia a chi aveva osato paragonarli a qualcun'altro. Certo non erano stati paragonati a un mucchio di spazzatura, ma gli Swirlies, nonostante le tangibili reminiscenze shoegaze, hanno una personalità ben precisa, che non è riassumibile esclusivamente con l'etere che trapela dalle fessure dei muri di chitarre dei "rivali" inglesi, ma che si protrae e si estende verso un rock forse più fruibile, tuttavia non meno coraggioso e sofisticato per strutture e arrangiamenti - talvolta piuttosto bizzarri e contorti, ma sicuramente originali. Il loro personale marchio di fabbrica ha vita propria e trova ossigeno nella componente lo-fi di banducola da scantinato e in dette geniali intuizioni unite all'amore per quella melodia pop che alleggerisce la miscela in una sintesi affascinante, suggestiva e senz'altro più sostenibile. Così, per molti critici diventarono "la risposta in bassa fedeltà a Loveless". Ma era ancora una visione del loro approccio alla musica troppo banallizzata. E poi c'è stato un tempo in cui anche i My Bloody Valentine addottavano produzioni più sghembe.

All'epoca dell'uscita, o per lo meno quella delle incisioni (risalenti all'anno prima), vigeva ancora la formazione storica: l'inossidabile Damon Tutunjian ancora in coppia col candore timbrico di Seana Carmody, entrambi divisi tra canti, chitarre, minimoog e mellotron. Peraltro sarà l'ultimo episodio a vederli affiancati. L'ultimo prima della dipartita della Carmody, che migrerà verso distese più melodiche, e formerà il quartetto d'orientamento indie-pop, Syrup USA.

Il disco (conosciuto anche come "Ho quasi vent'anni e non li dimostro!"), nonostante tutto, viene assorbito lentamente. E se così non fosse, probablmente oggi i suoi quasi vent'anni li dimostrerebbe pure tutti. Invece è una roccia, inossidabile. Ecco, forse il fattore che più di tutti troverebbe lo stesso riscontro sia negli Swirlies che nei My Bloody Valentine è proprio la capacità di proporre uno stile genuino, difficilmente deteriorabile.

Si susseguono undici brani perfetti che da subito non lasciano nemmeno il tempo di realizzare cosa si stia esattamente ascoltando. Un'escalation di insegnamenti assorbiti nel decennio precedente, reinventati per l'occasione, che conducono senza pietà all'epilogo del disco in un climax di soddisfazione.
Quello che in primis colpisce l'ascoltatore è l'omogenea versatilità del materiale contenuto, che attraversa con nonchalance ambienti rock 'n' roll tutt'altro che convenzionali e canonici, muri chitarristici tipicamente shoegaze e fuzz pop ("Pancake"). Il tutto imbastardito - specie grazie all'utilizzo di strumentazioni atipiche e una radio - e strutturato in modo apparentemente bislacco, ma allo stesso tempo orecchiabile ("Vigilant Always", o l'iniziale "Bell"), tanto da scomodare All Music Guide, che all'epoca non se lo lascia sfuggire, e, non a torto, lo definisce subito "un pilastro della musica indipendente degli anni novanta". E sia.

Il piatto smette di girare e da fuori non giunge alcun cinguettio. Mi tocco per vedere se ci sono. Sì, anch'io sono uscito vivo dagli anni novanta.

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