“Un illusionista si esibisce.
Con gesti lenti e calcolati, produce diversi oggetti: bicchieri d’acqua, conigli, fuochi del Bengala, colombe vive, bandiere, galline, guanti, che estrae dal suo abito o dal cappello.
L’esibizione si conclude.
L’illusionista saluta il suo pubblico, ma dalla sala si levano soltanto due o tre applausi educati e asciutti.
Il sipario cala come una mannaia.” *
Una locandina rossa, che col passare dei giorni verrà dapprima messa in un angolo, per far posto a quella di Billy Boy & The Britoons, ed infine arrotolata e portata via.
Sono gli ultimi sgoccioli degli anni ’50, in un’Inghilterra che ormai preferisce le boyband ai prestigiatori.
La locandina rossa, arrotolata, recita:
TATISCHEFF.
Magie. Illusions.
Jacques Tatischeff prestigiatore doveva esserlo senz’altro. Come spiegare altrimenti il fascino che dalla sua stentorea figura promana?
Un atlante scorreva nelle sue vene. Il cognome lo aveva ereditato del nonno, un tale Dmitrij Tatiščev, conte, generale e diplomatico dell’ambasciata russa a Parigi. E poi, un po’ di italiano, olandese, francese. Il nome invece, Jacques, era inequivocabilmente francese. “Jacques Tati”: così suonava certo più francese. Talmente conciso, come nome d’arte, da sembrare inventato.
Un prontuario di gesti, un’equilibrata goffaggine, era Jacques Tati. Un occhio candido e disincantato, capace di mettere a nudo ogni piccolezza dell’essere umano. Una manciata di lungometraggi —nei quali Tati veste i panni di se stesso fingendosi Monsieur Hulot— ne testimoniano la scanzonata eternità. Sempre più amaro il suo sguardo, sempre più stranito il suo restar sempre se stesso in un mondo irrimediabilmente proteiforme.
Continua a dirci, a distanza di anni, decenni, secoli: guardate, l’uomo è sempre il medesimo, in qualunque vita lo si inscatoli.
E una vita che Hulot avrebbe inscenato di vivere—tra Mon Oncle (1958) e Playtime (1967)— sarebbe stata quella del vecchio illusionista d’avanspettacolo, se solo l’idea di Tati fosse diventata pellicola. Invece, quella sceneggiatura venne lasciata lì, abbozzata soltanto: laconica, la scritta Film Tati n° 4 a suggellarne l’abbandono.
Ora che i gesti del garbato Tatischeff non sono più, come aprire le finestre di quello scantinato, per renderne infine visibile al mondo la meraviglia?
Un altro Tati non esisterà mai, poco ma sicuro.
Il flebile cenno, dalle sue mani scarabocchiato, di quel vecchio scontento illusionista, pare confinato nel morto archivio d’un pezzo di mondo spentosi, a Parigi, nel novembre del 1982.
Invece, ecco che, poco prima della morte della figlia di Tati, al regista Sylvain Chomet viene in mente di inserire uno spezzone di Jour de fête, primo lungometraggio del giovane Tati, all’interno del suo lungometraggio animato Les triplettes de Belleville. Chomet contatta allora la figlia, Sophie Tatischeff. E lei, che avrà pur ereditato qualcosa dal padre, vede nell’animazione la soluzione insperata.
Quella locandina rossa, con l’austero faccione di Jacques Tati, può finalmente aprire un nuovo film di Monsier Hulot, questa volta tornato Tatischeff. Il prezzo, modesto a dirla tutta, è l’aver cambiato in parte mezzo espressivo. Il risultato, è un film d’animazione diverso da qualunque altro.
Il tocco garbato di un tempo è intatto. Smorzata, la tagliente satira si fa caricatura d’un mondo oramai passato. La vita, come in ogni film di Tati, è ritratta con pochissimi gesti, che rendono le parole superflue.
La storia, pare, è quella del rapporto di Tati con sua figlia, calato in un contesto fittizio: l’illusionista porta con sé un’ingenua ragazzina, trovata per caso in uno dei suoi viaggi.
“Ogni contratto è un viaggio, in balìa di treni e aerei.
La vita da artista di music hall è un errare continuo, i teatri sono dei porti.” **
Ed è proprio in un viaggio nella Scozia rurale, vestendo i panni di un attediato illusionista, che Tati pensava di ritrovare sua figlia.
Quel che è certo, è che noi abbiamo ritrovato lui.
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