Un c.d. "film di mostri" non deve mai generare troppe aspettative, se non al massimo la dose minima sindacale di divertimento. O di schifo, perché come tutti più o meno sanno anche i film di merda hanno il loro, inintelligibile perché.

Coi Godzilla giapponesi bisogna fare un po’ più di attenzione; non si sta parlando di un semplice personaggio o brand, ma, orami è chiaro, di una sorta di significante culturale, un’entità brutale, estrema e totale. Come la guerra o l’energia inimmaginabile dell’arma atomica.

Facciamo 78 passi indietro, nella calda estate di fine incubo: l’arrogante follia del militarismo imperiale (o dell’imperialismo militare, fate voi…) ha portato l’antico arcipelago alla rovina. Chi viene mandato a morire muore; chi dovrebbe sopravvivere, muore; qualcuno che non dovrebbe vivere invece fugge dalla morte: quest’ultima è la storia del protagonista. In mezzo ai detriti di questa apocalisse in cui tutto è ridotto in cenere, allo 0, Godzilla sorge e fa strage. La rabbia degli antenati? Dei soldati morti? Il senso di colpa per l’orrore? L’espiazione di tanto dolore? L’inquietante e invisibile forza dell’atomo liberata dalla fissione? Il trauma da superare per raggiungere una qualche catarsi interiore? Qualunque sia il suo scopo o la sua origine, questo Godzilla non fa sconti e non ha pietà: distrugge & uccide con un furore che lascia il segno. In un clima in cui tutto è devastato, il Giappone che cerca di risorgere si ritrova al punto di partenza; anzi, al -1.

Takashi Yamazaki, regista che non conosco ma di cui mi sono reso conto di aver visto, mio malgrado, Space Battleship Yamato, è a quanto pare molto quotato in Giappone, anche ma non solo come autore di polpettoni drammatici, film animati e supervisore agli effetti speciali. Qui fa un po’ da factotum e confeziona un film che è quasi sorprendente e che sta avendo un successo quasi inaspettato.

Spiegare il perché non è così scontato; di fatto, presi singolarmente, i vari elementi e punti di interesse non dicono nulla o non sono nemmeno così speciali: non lo è la storia (lentissima all’inizio), non gli stereotipi dei personaggi, non certe bizzarre scelte di luci/ombre nei primi piani, non la recitazione giapponese, a cui non sono abituato (sussurrano e poi dopo due secondi urlano e si prendono per il collo, rendendo ridicola una scena magari pensata per essere drammatica, e vabbè…). Ma è innegabile che tutto funzioni insospettabilmente bene in questo film ambrato, che fa il suo bravo lavoro di intrattenimento e lascia in qualche modo il segno. Le luci del crepuscolo, il plumbeo scintillare delle acque, le citazioni di Jaws, il verde dei campi punteggiati dai crateri dalle bombe, le scenografie curate e legnose (fatte di legno…). Il senso di terribilità che questa ennesima rinascita di Godzilla suscita.

Niente fronzoli, niente speranze, niente empatia: la Toho prende sì spunto dalla dinamicità dei film hollywoodiani, superando il lirico torreggiare semi-divino di Shin Godzilla, ma lo fa ritornando alle radici profonde, sanguinanti e furiose del Godzilla originale; il film infetti è allo stesso tempo un riavvio del mito e una sorta di remake del capostipite (1954). Gli effetti digitali non sono all’ultimo grido, ma la patina di obsolescenza non fa altro che aumentare il fascino della pellicola, perché le inquadrature, le atmosfere e il potentissimo sonoro delle scene madri sono studiati con cura, competenza e senso estetico ammirevole. A nutrire l’adolescente e l’amante di distruzione che è in noi, un’interpretazione del raggio atomico di Godzilla assurda e inquietante nella sua ineluttabile drammaticità. Trovo ammirevole la cura e la dedizione con le quali i produttori giapponesi “trattano” il loro mostro devastatore preferito; in questo senso Godzilla Minus One fa il paio con il precedente Shin Godzilla, un’altra pellicola che lasciava interdetti e affascinati per motivi molto diversi ma che, come in questo caso, sono difficili da razionalizzare e spiegare.

Si tratta di un film tutt’altro che perfetto, distante dalla nostra estetica, ma in definitiva azzeccato, intenso, legato al Giappone e al suo mare, a una profonda sensibilità che riesce incredibilmente a dare spessore e significato a un pupazzone gigantesco che distrugge tutto.

Chi vuole si diverta a cerca citazioni, rimandi, riferimenti, parodie, critiche, messaggi: la gestione dell’epidemia di Covid19, l’indifferenza del Governo, il senso civico del cittadino comune. Per soprammercato, i messaggi tranchant verso gli Stati Uniti faranno anche scorrere un brivido caldo lunga la spina dei più appassionati rosiconi anti-US. Personalmente, in una storia da melodramma storico più che da film di SF, ho trovato apprezzabile la dolorosa riflessione fatta sulla Seconda Guerra Mondiale: non mi aspettavo che i disastri di quegli anni fossero ancora così sentiti e vibranti nell’immaginario del Giappone; o almeno, questa è l’impressione che ho avuto.

Il tutto, tra l’altro, pare sia costato 15 mln di $; e pare stia incassando mica male, per essere un film giapponese. A riprova del fatto che l’amore che i produttori provano per la loro creatura, se sincero e sentito, darà sempre buoni frutti. E che in un film del genere bisogna vere rispetto e timore della “bestia” se si vuol far felice il pubblico. Godzilla è il mostro più famoso del mondo e il franchise più longevo della storia probabilmente perché, come deve aver fermato qualche addetto ai lavori, in realtà è un’emozione che esiste in noi. Da pupazzesca tuta di gomma ad emozione nazionale il passo è davvero notevole.

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