Ai prodromi del post-rock, se da un lato c’è “Spiderland”, dall’altro c’è “Laughing Stock” (Verve, 1991), con quel suo sommesso ed inafferrabile astrattismo esistenzialista, tra ritmiche non lineari e chitarre in feedback, dinamiche intime e profondità insperate. Un capolavoro edificato attraverso lo stillicidio e la stratificazione policroma delle bande sonore, un’opera radicale di jazz-rock incircoscrivibile, con melodie vocali non più tangibili, eppure così intime e rapprese all’animo umano.

Lo splendido “Spirit of Eden” (EMI, 1988) aveva segnato l’ambientalizzazione del pop, il post-pop, forzando la forma canzone, sgrossando un blues da camera vieppiù dilatato dal jazz e da una psichedelia sussurrata. Un lavoro che si presentava rarefatto e altamente evocativo.

The Coulor of Spring” (EMI, 1987) estendeva una pop music difforme dalle regole, diremmo complessa e tormentosa, già art rock.

It’s My Life” (EMI, 1984) sapeva essere un album di pop elettronico sofisticato, palpitante, dove i sintetizzatori e gli strumenti tradizionali si ponevano a servizio di trame flessuose e di melodie personali, stringenti. Il songwriting cominciava a prescindere tanto dai contemporanei, quanto dagli archetipi (Roxy Music e Ultravox).

E “The Party's Over” (EMI, 1982)?

È l’album d’esordio, il punto di partenza cui giungiamo invertendo la successione cronografica di questo rimarchevole processo di evoluzione e rivoluzione.

British, inglesi, cioè “in quiet desperation”, i Talk Talk si formano nel 1981 a Londra, nel quartiere di Tottenham. Sono Mark Hollis, leader, polistrumentista, cantante (voce inconfondibile, che lacera, che graffia le pareti dell’anima), Paul Webb al basso, Lee Harris alla batteria e Simon Brenner alle tastiere. Quest’ultimo abdicherà presto, lasciando il posto al produttore e multistrumentista Tim Friese–Greene.

“The Party's Over” è un album di new wave commerciale, di new romantic, il patetico filone capitanato dai Duran Duran, dai quali, per l’occasione, ebbero a prestito il produttore Colin Thurston. Rilasciarono un LP incolore, scialbo, fuori fuoco, all’insegna di un synth pop convenzionale e senza estro. I singoli estratti non dicono molto: “Mirror Man” (pessimo esercizio sugli stilemi dei Depeche), "Today" (una sciabolettatina) e l’accettabile "Talk Talk", dalla ritmica ficcante riprodotta con enfasi nel testo: «Sono stanco di ascoltarti mentre mi rispondi per le rime/ …/ Tutto quello che tu fai per me è parlare, parlare / parlare, parlare, parlare, parlare». La cosa migliore, allora, sembra la sinuosa “Have You Heard the News”, mentre la titletrack alligna la buona prova vocale di Hollis che dà spessore a sintetizzatori così poco profondi da arrivare appena in superficie. Le parole dispensano una sconsolata amarezza: «Sono tutto ciò di cui sono colpevole/ Porta via questa condanna, Signore/ Dai un nome al crimine di cui sono colpevole/ Troppa speranza che ho inteso come virtù».

Nel complesso siamo di fronte a un album interlocutorio, passeggero, invischiato nella patina melensa e adiposa del new romantic. Tuttavia proprio qui si nasconde l’origine di una band in continua crescita e capace di diventare –sulla lunga distanza- influente come poche, spiazzante come nessuna. Val la pena, allora, apprendere da dove si provenga. E tornare qui suscita tenerezza, laddove, in ogni altra loro opera, possiamo trovare meraviglia.

L’album, per così dire, “degli occhi che parlano” va a vellicare anche il loro curioso artwork: ogni loro copertina risulterà sempre intrigante, piena d’enigmi, simboli, alberi, falene e fenicotteri. Tutte, in verità, migliori di questa.

I Talk Talk hanno dato luogo all’apoteosi rovesciata, l’esatto contrario dalle rock band, che giungono spossate allo scioglimento, mentre loro suggellano un ciclo decennale (in costante ascesa e mutamento) forti di due capolavori.

E pensare che l’inizio di Hollis era stato nel ’78 coi Reaction, autori di un solo singolo, “I Can’t Resist”, un r’n’r sguaiato con armonie vocali stentate. La chiusura sarà invece con un unico album solista, il commovente omonimo del ‘98, per poi svanire. Webb e Harris, come .O.Rang, chiuderanno poco dopo.

Come nelle elegie, “sentire è svanire”.

Ma vi aspettiamo ancora. Che altro fare?

Attendervi è giustificato.

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