Tra gli anni 70 e i primissimi 80 è invalso l'uso di definire "tonalità di Bryan Ferry" quella del baritono che "spinge" sul suo registro acuto, creando così un effetto di tremolo (non necessario) o comunque emotivamente connotato, come del resto è praticamente inevitabile quando il cantante (chiunque egli sia: basso, baritono o tenore) "spinge" su quel registro. Certo, forse per fortuna non tutti ottengono un colore di voce come il vocalist dei Roxy Music, ovvero melodrammatico e vibrato - per quanto la connotazione emotiva dello sforzo sia inevitabile - e uno di questi casi è proprio Tamino, nome mozartiano per il giovane Amir Moharam Fouad, ventiduenne cantautore egizio-belga. Nel 2016 registrò 5 sue canzoni alla chitarra che piacquero a chi piacquero e divennero nel 2017, con arrangiamenti professionali e registrazioni serie, il suo primo bellissimo omonimo Ep, realizzato con la collaborazione di Colin Greenwood dei Radiohead. Di quelle 5 perle, 3 sono contenute anche in Amir, questo suo primo Lp targato ottobre 2018, e una in particolare, "Cigar", nella stessa identica versione.
Come definire la musica di Tamino? Un Buckley padre o figlio, è uguale (tanto il secondo è stato sostanzialmente un'imitazione del primo) baritono, re della tristezza e della malinconia che contagiano anche brani in sé ragionevolemnte pop, ma che raggiungono vette liriche nelle depressioni esistenziali di Leonard Cohen, il tutto in salsa mediorientale alla David Sylvian. Ottimo inglese, voce funambolica fino a un sorprendente falsetto da virtuoso che, sia detto di sfuggita, a chi scrive non piace e anzi lo considera un limite stilistico, ma tant'è, bisogna saper riconoscere il mestiere.
Il disco debutta con uno dei capolavori del primo Ep, "Habibi", arpeggio ipnotico ma leggero di chitarra ad aprire, voce giovane ma profonda, di malinconia infinita. La melodia, manco a dirlo, è struggente ma la sua mestizia la salva dallo stucchevole, anche durante il funambolico ma bellissimo e doclissimo ritornello, cadenzato da un piano ipnotico che ricorda "Centerfolds" dei Placebo. Le spezie mediorientali intossicano l'amante deluso (e distrutto), prendono Jeff Buckley in paranoia e lo trascinano in spirali di pianoforte, prima di un'emozionante pausa. Peccato solo per l'ultimo verso cantato un'ottava sopra in un falsetto che, per quanto eccellentemente eseguito, a un orecchio come il mio non può che apparire sgradevolmente stridulo, ma per fortuna dura poco.
Purtroppo il resto dell'Lp non si basa su simili capolavori, e questo forse è l'unico limite dell'opera, intendo unico oltre quello che lo accomuna al 99% dei prodotti usciti dopo gli anni 90: la mancanza di una ricerca originale nei suoni e nelle soluzioni armoniche (che invece, a mio parere, è stato il grande merito degli 80), compensata da un'originale miscela di cose già sentite. Il disco si snoda fra canzoni più "normali", o pop se preferite, ovvero basate su una struttura più o meno regolare di strofa e ritornello. Ciò che le rende intriganti sono l'intenzione e il colore della voce del nostro, oltre agli arrangiamenti della Nagham Zikrayat, orchestra di esuli mediorientali di stanza in Belgio, un florilegio speziato in grado di ravvivare il porridge un po' ribollito del songwriting classico di marca europea su cui si basa l'autore: si senta l'ingresso di "So it Goes", che sembra un Thom Yorke che canta nel Gran Bazar di Istanbul. Di questo gruppo sono piacevoli "Tummy", "Chambers" ed altre, ma bisogna dire che tutte sono contraddistinte da una gran classe di sylvianiana memoria.
Il capolavoro riappare con "Indigo Night" (dal primo Ep), contraddistinta anch'essa da arpeggio di chitarra straziante, voce che dal profondo suggerisce melancolie cosmiche su una lenta scansione quasi reggae, a seguire il filo dell'immaginazione e di ancestrali ricordi. La voce sa rapire e deliziare, sa inerpicarsi nei corridoi malati e indolenti dell'anima e in scale ardite che a tratti ricordano la ricerca "cinematografica" della contemporanea Anna Calvi. La successiva "Cigar" invece accelera leggermente il ritmo, il cantanto si fa quasi sfida beffarda (rispetto al resto del disco), la struttura è semplice e si basa su una melodia efficace intervallata da salto tonale e ritornello/variante quasi indie, siappur su arrangiamento acustico. Meravigliosa, pur senza rappresentare nulla di rivoluzionario né nella struttura né nelle soluzioni armonico/melodiche.
Altro brano di spicco, non compreso nel primo Ep, è la terzultima "w.o.t.h.", scritto proprio così, probabilmente l'acronimo del verso cantato nel finale "the will of this heart". Ingresso con rapida percussione forse campionata, comunque dalla forte impressione elettronica che un po' contrasta con gli altri arrangiamenti. Il brano è evocativo eppur vibrante, l'arrangiamento atmosferico e avvolgente, le spezie stordiscono ma la vitalità non si fa soffocare, il salto tonale la riscatta. Un canto di ringraziamento alla divinità e alla forza della natura, accompagnato da un'elettronica immersa nelle profonde e limacciose acque del Nilo. Chiude il disco l'ultimo capolavoro, "Persephone", il canto struggente per un'amata metaforicamente sepolta, e qui Leonard Cohen riprende ciò che è suo: melodia depressa, semplice ma toccante, giro armonico "alieno" e imprevedibile, nondimeno capace di conficcare frecce nel cuore. Nella delusione dell'amante ormai solo, Tamino è veramente in grado di sprofondare nei recessi inconsci più oscuri e rievocare le lacrime più nascoste, così negate dal conscio. Verso il finale un inciso anela all'empireo, per poi ripiombare nel senso di colpa.
Amir, principe, secondo nome del nostro, come principe era il protagonista del Flauto Magico di Mozart, Tamino appunto. In questa sua sorta di isolamento culturale, dove i principali referenti o sono remoti (l'Egitto e il Medio Oriente tutto) o sono morti (Buckley, Cohen), lui appare come un principe sdegnoso che non si mescola con la volgarità del suo tempo. Un punto di forza, certo, ma pur davanti a un'opera che ha saputo sinceramente emozionarci resta l'impressione che la maturità, quella vera, ovvero la capacità di sondare i recessi più profondi dell'anima fuori da quelli più squisitamente emotivi, sia una cosa ancora di là da venire. Meglio, no? Lo seguiremo con più curiosità!
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