L’assalto al cielo compete al santo, ma pure al buffone. Che non è male mordicchiare l’azzurro per poi risputarlo addosso ai poveri di spirito (categoria alla quale mi onoro di appartenere).
L'assalto al cielo compete a tutti. E ognuno per salire fa come vuole, c’è chi usa la scala, c’è chi salta, c’è chi chiude gli occhi…poi c’è pure chi scompiglia significati soffiandoci sopra come fa il vento.
Che proprio da un tipo di vento origina, etimologicamente, la parola buffone.
Oh, attenti bambini, l’argomento di oggi è il paradiso/inferno dell’eccentricità inglese, quella cosina da niente che i più accorti dicono nipotina della malinconia e cugina della saggezza.
Questo paradiso/inferno ha un nome buffo, anzi buffissimo...
E questo nome è Bonzo dog doo-dah band, ovvero il più perfetto paradigma della parolina magica che contiene al suo interno. Quale parolina? Bonzo? Dog? Doo-dah? Band? Ma, vedete voi, che in fondo son magiche tutte quante. Io però voto per quella con il trattino.
Che poi, per dire, Bonzo dog doo dah band come si traduce? La band dada del cane bonzo? La bonzo band del cane dada? La banda cane del bonzo dada? Il cane bonzo della band dada? Oh, il problema non sussiste, tanto suona bene in qualsiasi modo.
E comunque immaginate: il quartetto Cetra e lo zio Frank che suonano insieme al party del cappellaio matto; il perfetto prato all’inglese che si fa discarica di ogni detrito o quisquilia musicale, l’assalto notturno al deposito strumenti della banda del paese.
“Gorilla”, il primo album, è uno stordente gas leggero che fuoriesce dalle stanze dell’alchimista come le bolle di sapone dal cerchietto. Solo che poi quelle bollicine quando esplodono non fanno solo puf.
Si parte con una specie di sigla televisiva degna dei G.A.S.A.D (Gruppi a sinistra dell’altra domenica), si prosegue con una cosuccia alla Beatles impreziosita (?) da stille rococò e sberciata da un orgasmo basso tuba.
Poi arrivano “Nella vecchia fattoria”, un crooning da comic opera, una scemenza salterina , un dixieland da battello…e un sacco di amenità varie…
Ecco se pensate ad un orrido ed inascoltabile pateracchio siete fuori strada.
Che tutto è attenuato da una bizzarra atmosfera da the delle cinque e da una follia quasi dolce. E tutte quelle stramberie, tenute insieme dal gusto infantile per il gioco, alla fine se ne filano via lisce in guisa di canzoncina. Come se il caos rifiutasse di darsi importanza.
E l’impressione è quella di stare su una nuvola. Solo che poi da quella la nuvola pende un calzino bucato
Diverso il discorso per il successivo, “The doughnut in granny greenhouse”, maggiormente dedito a un canone (anche se canone si fa per dire) pop rock. Certo non manca (e come potrebbe?) l’effetto trombone su marcetta o pernacchia su carillon, ma alla delizia quasi ottocentesca del precedente si è sostituito ben altro piglio.
E insieme alla solita chincaglieria superscema compaiono fantastici finti rock e finti blues (leggasi parodia) e anche momenti molto avantgarde dove lo zio Frank, con uno strappo, allunga decisamente sul quartetto Cetra e i Beatles par quasi s’apparentino ai Soft Machine patafisici, ovvero quelli dei primi due album.
Che dire, ad esempio, della conclusiva “Mustachioed daughters”, dove voci recitanti s’adagiano su un sottofondo comico tribale squarciato dalla rumoristica e da organetti horror? E di “We are normal” che è circo , sarabanda, orchestrina, gloriosa gioia free form e furioso rock’n ‘roll?
Ma poi alla fine, esattamente come per “Gorilla”, prevale una sensazione di assoluto psichedelico e queste canzoncine provocano lo stesso spaesamento di una “I am the walrus”(Beatles) o di una “Flaming” (Floyd barrettiani). Del resto gli anni son quelli.
Poi certo, i Bonzo andavan visti dal vivo. Si narra infatti di concerti favolosi (tutti diversi l’un dall’altro) e di una band di quattro o cinque elementi che sul palco aumentavano fino a venti/trenta. Di guizzi verbali, incursioni nel grottesco e tributi al non senso. Di astrusi manichini robot e di un milione di clownerie…peccato non esserci stati.
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