“I’m Beginning To See The Light”

 

Così cantavano i Velvet Underground del terzo e quieto disco, come a voler far capire che l’eroina era un ricordo, e che la dipartita di John Cale non li aveva scossi. E proprio con questa frase si potrebbe riassumere lo stato mentale attuale di Anton Newcombe, pazzoide deus ex machina del gruppo/progetto Brian Jonestown Massacre, giunti oramai al ventennale di attività.

 

La citazione velvetiana calza a pennello perché rimanda ad un lato del triangolo che circoscrive le tre maggiori influenze nel suono dei Brian Jonestown: Velvet Undeground, come detto, Rolling Stones grossomodo periodo “Aftermath” (ma con un nome così è quasi scontato citarli) e scorie Spacemen 3/ shoegaze. Questi i tre pilastri, almeno fino alla svolta avvenuta con “My Bloody Underground” di 4 anni fa, in cui Newcombe reinventava la band (martoriata negli anni da rimpasti e dipartite burrascose dei vari membri fondatori) e ampliava il proprio spettro musicale all’avanguardia classica, al kraut percussivo, al drone duro e puro.

 

Uscito pochi mesi fa, “Aufheben” è forse il miglior disco del nuovo corso e coincide con la ritrovata verve artistica del Nostro, che sembra oramai aver buttato alle spalle dipendenze da eroina e deliri di grandezza e onnipotenza (segnale importante ne è il rientro nei ranghi dopo 10 anni dell’amico Matt Hollywood). Opera più diretta e quasi pop, se confrontata al suddetto “My Bloody Undeground” o al successivo Who Killed Sgt. Pepper” del 2010, in cui l’equilibrio fra strutture kraut mistiche e melodia pop raggiunge livelli di inaspettata perfezione. Proprio l’iterazione mantrica tipica tanto dell’amata musica psichedelica 60’s che del motorik sound teutonico è la chiave di lettura del disco, guarda caso registrato a Berlino e il cui titolo allude (probabilmente) al concetto di sublimazione caro ad Hegel, per cui un termine è al contempo conservato e modificato dall’interazione con un altro termine.

 

Esempio perfetto di quanto accade lungo tutto il disco, in cui amori passati vengono trasfigurati dalla lente etnica e kraut, rimanendo comunque riconoscibili seppur sottotraccia, per poi palesarsi improvvisamente, come nei fraseggi di sitar presi pari pari da “Paint It Black” (“Stairway To The Best Party In The Universe”, unico momento simil plagio del disco). Il resto è un fiorire di momenti stonati e caracollanti (“I Want To Hold Your Other Hand”, attenzione alla velata autoironia dei titoli del disco, che dicono molto della voglia di prendersi poco sul serio del nuovo Newcombe), inni strumentali suonati sulla convergenza immaginaria fra Indo, Eufrate e Reno (“Panic In Babylon”), impensabili esercizi elettro-pop stile Notwist, ma in finlandese e sotto acido ( “Viholliseni Maalla”), ballad stonate in francese con tanto di flauto (“Illuminomi”) e flauti sulla luna (“Face Down On The Moon”) Fino alle finali e bellissime “Waking Up To Hand Grenade” e “Blue Order, New Monday”, percussiva e ipnotica la prima, pastorale e dopata la seconda.

 

Di sicuro fra i personali dischi dell’anno, e una piccola perla di psichedelia vocata una volta tanto a comunicare con l'esterno e non solo col proprio io interiore.

 

Bentornato Anton.

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