Tra il 1968 e l'inizio degli anni settanta quasi tutti gli artisti più blasonati del root westcoastiano sono in un pieno turbine country rock, ed in special modo proprio i Byrds, che dal '68 al '70 pubblicano il supercountry "Sweetheart Of The Rodeo", il metà country metà psichedelico "Dr. Byrds & Mr. Hyde", i lavori country rock/folk rock "Ballad Of Easy Rider" e "(Untitled)".
Già nella mia recensione a riguardo di quest'ultimo lavoro m'ero permesso di tacciare McGuinn e soci di scarsa originalità, se non forse di pavidità, sebbene, proprio sul fronte del coraggio compositivo, in ballo nella Byrd family vi fosse a quel tempo persino il nome di un uomo contro tutto e tutti come Kim Fowley. Ebbene, anche lo storico produttore dei Byrds, Terry Melcher, si stancò della "sua" band e di quel suo modo di suonare, e mentre i ragazzi sono in tour, cos'è che fa lui? Prende il materiale a disposizione, convoca l'arrangiatore-complice Paul Polina, spiega a costui la sua trama e... zac! Morte (parziale) al country rock!
Nel giugno del 1971, all'insaputa dei musicisti ed in seguito, quando oramai troppo tardi, contro la loro espressa volontà, nasce "Byrdmaniax", il primo disco "black" dei Byrds.
Melcher prese il materiale appartenente a tre diverse sessioni in studio di registrazione, rispettivamente di giungo ed ottobre 1970 le prime due e di gennaio '71 l'ultima. Dato che il precendente album, "(Untitled)" uscì a settembre del '70 e che fu registrato tra maggio e giugno di quello stesso anno, e considerato che all'uscita di "Byrdmaniax" la band era ancora in tour promozionale di "(Untitled)", se ne evince chiaramente che gran parte di questa tracklist proviene dalle sessioni per quel disco, ovvero i brani di "Byrdmaniax" corrispondono pressoché a leftovers. Se poi pensiamo che molto di "(Untitled)" deriva a sua volta dalle ceneri di un musical mai nato, allora è presto detto.
Come per il disco dell'anno prima, dunque, anche "Byrdmaniax", suo scarto naturale, dal punto di vista compositivo ha le stesse caratteristiche: McGuinn/Levy per gli scarti del musical, Battin/Fowley per il resto. Su tutto, la coppia predominante è, comunque, senza dubbio Melcher/Polina.
La versione country della celebre "Glory, Glory", grazie ai due ritorna ad essere spiritual, solamente venato di pedal steele guitar; il country McGuinniano "I Trust" diventa prima un gospel, poi un 45 giri ed infine un flop; il giochetto country "I Wanna Grow Up To Be A Politician", ad un certo punto viene innestato ad una musichetta da Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band. Sul fronte Battin/Fowley, in "Tunnel Of Love" ci sono troppe tastiere, i fiati che salgono quasi lasciano di stucco, e gli ottoni quando arrivano non sorprendono più, in quanto il brano s'è già tramutato in un boogie buono per emuli di Fats Domino. "Citizen Kane" più che altro sembra un pezzo glam, e la mano di Fowley il pazzo, da sempre un destrutturatore, si fa sentire pesante.
Ma ci sono dei brani che il più bravo dei producers ed il più scafato degli arrangiatori non riescono, neppure se uniti nello stesso intento, a modificare, come "Pale Blue", acustico folk così standard che ogni versione diversa diverrebbe ridicola, oppure il confidential country, tutto sottovoce, di "Absolute Happiness", perlina di Skip Battin e Kim Fowley, a dire il vero un po' troppo riconducibile a certe linee melodiche di Cat Stevens.
Bluesare, intingere nel nero di seppia, farcire ulteriormente brani così inevitabilmente ed irreversibilmente "bianchi" significa sozzarli, sebbene qui in ballo non vi sia alcun capolavoro potenziale, anzi tutt'altro. Eppoi, compiendo il tutto di soppiatto, all'insaputa dei diretti interessati... Senza il loro appoggio Melcher poteva solo sperare di riarrangiare quel che c'era e che poteva andar bene allo scopo: certa roba "intraducibile" nel linguaggio del soul andava sostituita di netto, ma brani che potessero servire da rimpiazzo non ce n'erano, e la band, non sapendo nulla, non avrebbe potuto produrne. Dunque il progetto diventa doppiamente fallimentare, perché in primis è riuscito "fisicamente" solo a metà, cioè solo per la metà dei brani in scaletta, e quindi perché quel poco che era riuscito era riuscito piuttosto maluccio.
"Americana" è in genere un termine che, nell'accezione musicale, in sé oramai racchiude tutto uno stile frutto di mescolanza tra rock, country, folk, root... Quella in questione sarebbe invece "americana nera", frutto dell'orgia tra soul, gospel, spiritual, blues... Sono convinto che a Melcher questa idea della "continuità" nel segno dell'american music avesse visto giusto, tutto sommato.
Ritengo, insomma, che l'idea di una virata, ed anche decisa, non sarebbe stata così cattiva. Ma per compiere una svolta di tale entità non bastano quattro scartine, di cui solo la metà subisce una riconversione stilistica, e non basta che il progetto venga al mondo artificialmente, prescindendo dall'ispirazione.
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