Non c'è molto da rimarcare a riguardo di questo disco che segna la fine dei Byrds della Columbia Records, e che, tutto sommato, non avendo pretese particolari, si disimpegna benino tra i padiglioni auricolari, adagiandosi su di un traditional riarrangiato in maniera azzeccata (la titletrack), un boogie rock campagnolo (la cover di "So Fine"), la festosa ma non troppo "Get Down Your Line", la solare "Precious Kate" ed il finale molto paraculo di "Lazy Waters"...

Solo due-tre cosucce: l'autorato di Kim Fowley, sempre in collaborazione con l'allora bassista dei Byrds Skip Battin, dopo la sbornia country rock pare voler tornare ai propri standards, i quali potrebbero esser definiti, parafrasando il titolo di uno dei suoi più rappresentativi album, oltraggiosi. Ed ecco che "America's Great National Pastime" sembra un country da cabaret, da vaudeville, piuttosto che da saloon. Ecco dunque che Fowley pare gradatamente, forse pure inconsciamente, ricominciare a far la strada di ritorno verso il proprio stile. Ovvio che, allontanato David Crosby ed allontanato Gram Parsons, ad uno come Roger McGuinn di proporre a Fowley l'annessione effettiva nei Byrds non passava neppure per l'anticamera: dove l'avrebbe mai portato, un fuso di cervello come Kim?

E poi un'altra cosa: "Bugler" è una cover di un vecchio brano, qui reinterpretato da Clarence White, l'ottimo chitarrista, uno dei più noti session men del "giro" country-root. White, che di cognome faceva LeBlanc, fu vittima del suo tempo. Un musicista come lui semplicemente non sfondò a proprio nome o con bands di cui era il former member a causa della sovrabbondanza di grandi nomi in quel periodo. Così, piuttosto che lavorare in nome e per conto proprio, finì per preferire il lavoro al servizio di una band i cui colpi più forti li aveva già sparati, oppure fare il session man per Ry Cooder o James Taylor, e addirittura restare disoccupato, come accadde dopo lo scioglimento di questi Byrds. Di gente come lui, seconde e terze linee che avrebbero potuto dare e prendere di più, risalenti a quel periodo ce n'è una marea, a cominciare, per pigrizia di chi scrive, proprio dall'amico di Kim Fowley, il bassista Skip Battin, che prima di essere un uccello aveva un duo, Skip & Flip. Ma ripeto, di nomi ce ne sono a bizzeffe, e non possono emergere se di quel periodo e movimento i più finiscono per ricordarsi solo Dylan, la Baez a malapena, e Young.

L'ultima: Bugler è il nome di un cane con cui il cantore, da ragazzino, correva libero e felice, alla ricerca della vita selvaggia e dell'avventura. Bugler poi morì investito da un automobilista: così dice la canzone. Bugler non è solo un cane, ma è la vita selvaggia in sé, è l'avventura del sentirsi liberi, è l'essenza dell'essere giovani. Bugler è il sentimento del country man, soprattutto dell'artista country, ed è anche il suo destino: Clarence LeBlanc morì el 1973, a  ventinove anni, anch'egli investito da un auto con alla guida una donna  ubriaca. Morì davanti agli occhi di suo fratello mentre caricavano assieme in macchina gli strumenti e l'apparecchiatura a fine concerto, una rimpatriata della sua prima vecchia country band, i Kentucky Colonels. In "Bugler" Clarence White canta la sua morte e dedica la canzone a se stesso, senza saperlo. Un po' come fece Gram Parson, che proprio a Clarence dedicò la sua ultima canzone, "In My Hour Of Darkness", suonandola persino al suo funerale, nulla sapendo che sarebbe stata la canzone della propria triste fine, in un tragico abbattersi susseguenziale di tessere di domino.

Morte e Rock.

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