Io non me la sento di bocciare in pieno questo disco, che molti ripudiano ed altrettanti, forse perché più di cuore e meno di cervello, incensano. Darò comunque a Roger quel che è di Roger, e mi permetterò di sottolineare che il disco live, seppur contraddittorio in certe sue peculiarità, mette in mostra una line up decisamente di livello.

A riguardo del live, dunque,  tra cavalli di battaglia, covers non edite in lavori ufficiali, inediti assoluti, c'è da rimanere spiazzati. A parte "Eight Miles High", non vi è in scaletta un brano ascrivibile ad altri former members dei Byrds, se non Chris Hillman, coautore assieme a McGuinn di "So You Want To Be A Rock & Roll Star". E' come se McGuinn avesse voluto azzerare il passato (o c'erano già le prime cause ed i primi divieti in corso?). Ascolto dunque questo disc-one tutto dal vivo e sento che il cavallo di battaglia è accelerato da una sezione ritmica tale da sembrare bluegrass puro. In "Mr. Tambourine Man" vi sono inserti di chitarra decisamente corroboranti ma infelici. In "Mr. Spaceman", poi, la sezione ritmica più che bluegrass pare suonare rockabilly. La sensazione è che la band sia spaccata in due: da una parte la melodia, McGuinn, la sua voce e la sua dodici corde sempre fedele a sé stessa; dall'altra parte, l'incalzante ritmica countryrock, bluegrass rock, rockabilly. Nel mezzo, poi, Clarence White alla chitarra solista, che quasi quasi non sa cosa fare. Emblematica "So You Want To Be A Rock & Roll Star", in cui White alterna schitarrate hard a fraseggi countryrock tra un verso e l'altro, il tutto sopra una ritmica sparata appunto a mille e tale da rendere il brano un beat sopra una quadriglia appalachiana.

Dal vivo, il folkrock è più acustico, il countryrock è più rock, i successi dei primordi, quella sorta di "beatfolkrock", sono diventati sghembe chimere, mentre la psichedelia di "Eight Miles High" è divenuta addirittura progressive rock, e con splendidi risultati, con una suite di un quarto d'ora e passa.

Ascolto il disc-one e dunque non so quale sarà lo stile dei Byrds a fare seguito al live. Prog? Hard rock come in "Lover Of The Bayou"? Crossover di tutto con tutto? So comunque che questo "(Untitled)" doveva chiamarsi emblematicamente "Phoenix", od ancor più azzardatamente "The Byrds' First Album". Quindi la svolta c'è, anzi ci deve essere.

Ed invece, come fu per "Dr. Byrds & Mr. Hyde", il ché di per sé non rappresenta un complimento, questo studio disc è poco originale e pressoché spaccato a metà. Da un lato il folkrock, anche in studio reso acustico, direi quasi semiplugged, frutto dei componimenti di McGuinn - assieme al direttore teatrale Jacques Levy - per l'improbabile "Gene Tryp" , mai completata versione musical in salsa rootrock americano del Peer Gynt di Ibsen e Grieg. L'altra metà dei brani è rappresentata dal country rock di Skip Battin nuovo bassista della band, il quale si avvale dell'amicizia ben salda nonché della collaborazione del pazzissimo Kim Fowley, in quei giorni lì - che saran stati otto o dieci al massimo - intrippato di country rock.

I brani di Roger viaggiano all'insegna della tradizione Byrdsiana più pura, tra mille dindondan, stavolta accompagnati da molta chitarra acustica ed a volte da qualche nota di piano. La matrice, comunque, resta innegabilmente quella di sempre. Molto godibile "Chestnut Mare", classico McGuinniano, ed "All The Things", mentre lo schema di "Just A Season", ad orecchie byrdmaniache come le mie, risulta un po' ritrito.

Sull'immancabile fronte covers, "Truck Stop Girl" della rock&roll (e country) band Little Feat è semplicemente autunnale, seminostalgica, un piacere assoluto, mentre "Take A Whiff On Me", successo del folk&blues supercrooner di colore Lead Belly, alla fin fine non è nulla di che.

Sul fronte country, Battin collabora col batterista Gene Parsons per "Yesterday's Train" e si avvale di Fowley nel country perfettino di "You All Look Alike". Il risultato è pressoché dignitosissimo quanto freddino, forse troppo accademico, olistico. Assieme a Fowley ed a McGuinn al contempo, si propone nel superscazzato mid-tempo rock "Hungry Planet", realmente un episodio riuscito, per quindi chiudere in solitudine con un riuscito folk urlato e sferzante,  intitolato "Welcome Back Home".

La quasi totalità delle attese geerate dall'ascolto del disco live viene dunque disattesa nel prodotto di studio. Il prog non c'è, il rock duro e puro nemmeno, il beat-folk dei tempi andati non si contamina con nulla limitandosi a farsi più acustico, più folk e basta. Un po' troppo allineati e coperti i pezzi country, seppur molto buoni.

Un disco buono ma pavido, per una band che ha quasi sempre avuto il coraggio di osare, di rinnovarsi, fino a presentare scalette dal vivo tanto eterogenee da lasciar perplessi come mi lascia quella proposta in questo "(Untitled)".

Un disco senza titolo: sempre meglio che con uno troppo velleitario.

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