La Via Lattea, oscuro sentiero che si estende nei tortuosi dedali della notte, carovana di astri dall'indefinito verso l'ignoto. Quante volte Steve Kilbey nelle afose notti australiane ha alzato lo squardo per far conta di stelle e in quante si è soffermato su quella che ha abbandonato l'acceso universo notturno per andare ad adagiarsi in un ignoto alveo dell'immenso oceano.
Starfish è stato l'apice della parabola dei Church, il canto delle sirene. Eppure agli albori fu definito album poco coraggioso e mieloso dai detrattori e i fan della prima ora, abituati alla strana e originale formula dei precedenti lavori, pop mantecato di tradizionale e canonica psichedelica, quella di scuola Byrds per intenderci. Un veloce e avventato giudizio porta a facili quanto errate conclusioni. Quest'album ha dispensato un'alchimia unica e originale alla musica pop arricchendo la lista dei preziosi lavori giunti dalla lontana Australia che nel decennio ottanta ha vissuto la sua età dell'oro con Died Pretty, i Birthday Party e Nick Cave, i Radio Birdman e tanti altri. Apparentemente lineare e semplice nella sua struttura, Starfish è un lavoro inintelliggibile che si svela poco alla volta, ascolto dopo ascolto. Il pop delizioso e perennemente malinconico imbastito dalla chitarra di Peter Koppes (coaudiuvato dalla seconda chitarra di Marty Willson-Piper e dal valido Nick Ward alla batteria) ondeggia flessuoso sulle liriche di Kilbey, una perfetta, mutua intesa che corre sul filo di vibrazioni uniche, di sensuali e spirituali inquietudini dagli elevati valori espressivi.
Incomunicabilità ed immensi spazi siderali senza possibilità di incontro, di intersezione nei sinistri riff di "Destination" aprono le porte del cielo proiettandoci verso la via celestiale che noi, adolescenti ottantini, abbiamo percorso nei nostri pensieri, nel buio delle nostre camerette, in spiaggia o campagna, in compagnia o accompagnati solamente da note e parole, imprigionati e convogliati dolcemente, incapaci di reagire, "qualcosa di bianco e luccicante ti porta qui, nonostante la tua destinazione, sotto la Via Lattea stasera". "Under The Milky Way" più che una canzone è una dimensione, uno stato emotivo, un caposaldo dell'intero panorama musicale degli '80, incantevole nelle sue pregievoli aree ed originale nell'assolo di chitarra dall'effetto cornamusa. Kilbey profonde calore, ci acquieta con ammalianti infusi di parole nonostante narri di soldi sporchi ("Blood Money") e patemi d'animo ("Lost"), finissimo pop inzuppato fradicio di malinconia. "Il canto che preferisco è il grido del rondone, perché lo associo all'estate" recita Trevor Cox in un suo scritto. Starfish è per me una sonora, eloquente rappresentazione dell'autunno e gli autunni della mia anima. È estremamente facile perdersi, ritrovarsi, girovagare senza meta ("North, South, East and West") negli infiniti lidi di quest'opera e quando le atmosfere virano verso orizzonti più colorati e festosi ("Spark", "Antenna", "A New Season"), il crepuscolo è dietro l'angolo nelle liriche taglienti della ipnotica e affascinante cavalcata che porta il nome di "Reptile". "Hotel Womb" chiude l'album, in sordina e senza clamori, proprio come tutte le cose semplicemente perfette nelle loro piccole imperfezioni, quelle che custodiamo accuratamente nei nostri scaffali, quelle celate in un punto remoto, imprecisato dell'oceano
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