Il titolo è più che esplicativo: "Magia e Medicina". I talentuosi ventenni inglesi nati dalle parti di Liverpool (di celebre lì non c'è solo la squadra di calcio...) sanno quello che vogliono: far coesistere l'ispirazione e la razionalità; innovare senza per questo dover fare strumentali e poco credibili rivoluzioni; scrivere canzoni nuove ma dal sapore antico
, senza lasciarsi influenzare troppo dalle mode del momento.
Il secondo capitolo dei Coral prosegue, ampliandolo, il discorso intrapreso con il loro giustamente acclamato debutto. Negli undici brani che compongono l'album i dottori/sciamani mescolano nel loro dorato calderone tutti i generi che hanno contribuito alla loro mirabile formazione.
Ascoltare "Magic & Medicine" è un po' come ripercorrere degli itinerari che si ritiene di conoscere a menadito, per poi ritrovarsi all'improvviso in luoghi nuovi (ecco la magia...) che i nostri giovani apprendisti stregoni si divertono a farci scoprire.
Il risultato complessivo, diciamolo subito, è sorprendente. Il lavoro non suona affatto "old time music", come qualcuno potrebbe pensare. Nonostante, in filigrana, siano chiaramente individuabili tutti i modelli di riferimento, il disco risulta fresco, ispirato, coinvolgente.
Si parte con "In the Forest", brano che indica chiaramente la direzione di marcia, con un organo Hammond a condurre le rallentate danze. Con "Don't Think You're The First" siamo in un morriconiano west che si colora di tinte psichedeliche; se oggi Stan Rigday e i suoi Wall of Voodoo avessero vent'anni, avrebbero forse scritto canzoni simili a questa.
"Leizah" suona meravigliosamente country, ma non è un idillio: nuvole e lampi incombono all'orizzonte.
"Talkin' gypsy market blues" è un pezzo dylaniano fini al midollo, un blues elettrico in stile "Highway rivisited 61", "cattivo" al punto giusto, ma che, come molti pezzi dei Coral, possiede ramificazioni insospettablili. In "Secret kiss" riappare l'organo anni '60 per "condire" una canzone dalle ascendenze francesi (Jacques Brel ?). "Milkwood Blues" è la più speziata, la più ricca di quelle deviazioni caratteristiche della band; finanche il jazz, il vaudeville fanno capolino in un brano che, comunque, potrebbe essere definito neopsichedelico.
"Bill McCai" è una sfrenata cavalcata country-western, con Roger McGuinn e i suoi Byrds a condurre la colorata carovana, che decide di fare una sosta al ranch dei Credeence. "Eskimo Lament" parte come un'intensa ballad alla King Crimson, ma ben presto si aprono nuovi scenari e si finisce con l'accompagnamento dei tromboni, presi in prestito dai passeggeri del "Sottomarino Giallo".
"Pass it on" è un brano alla Neil Young di disarmante semplicità, ma che possiede calore e d intensità da vendere.
In "All of our Love" le atmosfere diventano più rarefatte e conturbanti: la voce di Skelly sussurra; un piano, un'armonica, una chitarra acustica e un minaccioso basso intrecciano una lisergica melodia.
In "Confessions of A.D.D.D." il miglior pop californiano degli anni d'oro e il progressive meno onanista si incontrano, non senza avere prima invitato i padri del blues; un finale alla Can rende il tutto più appetitoso.
Che dire di più? Mi rendo conto che i nomi citati, i riferimenti sono troppi, ma la magia dei giovanotti di Liverpool è quella di riuscire a farteli dimenticare, di avere comunque un loro sound.
La medicina dei Coral forse non sarà miracolosa, ma rappresenta di certo un ottimo ricostituente per la musica pop.
P.S. L'album in questione per me è stato il migliore del 2003.
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