Non è così che dovrebbe cominciare una recensione.
Non va proprio che avrei voglia di parlarvi dei cazzi miei, solo perché ho finito tutto l'alcool disponibile ma mi rendo conto di essere ancora in grado di utilizzare una tastiera.
Quindi non lo faccio.
Però che questo album è qualcosa che va oltre il momento e le contingenze ve lo devo dire, perché potrebbe servirvi.

"We Can Have It" parte con una voce, a tratti due, e poche note e giochi d'eco, sembra dire: prendete posto, respirate, non vi curate se tutto questo vi sembrerà eccessivo, in realtà è di una semplicità aberrante.
"Who Are You, Defenders Of The Universe", seconda traccia e primo reale colpo al cuore, le direttive di questo viaggio cominciano a svelarsi, sempre le stesse due voci che rischiano di restare intrappolate in uno sputare sentenze troppo dark mentre gli strumenti creano atmosfere che sanno troppo di Nick Cave. Eppure c'é qualcosa di più in quel semplice "I can't love you / you can't love me": un richiamo a qualcosa che conosciamo e che abbiamo dimenticato, qualcosa che diventerà chiaro, se non brillante, in seguito, superati gli stilemi robertsmithiani di "Lost In The Plot", con l'intro acustico di "The Second Part".
Una sconosciuta alchimia di chitarre cupe e orchestrazioni che si richiamano direttamente a quel suono anni '60 difficilmente definibile senza citare Françoise Hardy o Nino Ferrer o ancora la teatralità spinta di Lewis Furey (canadese come i The Dears), un mood che in tempi recenti, ma non recentissimi, era stato evocato così bene solo dalla splendida colonna sonora di The Virgin Suicides ad opera degli Air.
Le successive "Don't Lose The Faith" e "Expect The Worst/'Cos She's a Tourist", quest'ultima una vera e propria suite ibrida fra decadenze ottantiane costruite e decadenze reali dettate dai tappeti d'organo e dai cori di voci e fiati che una appartenenza temporale non ce l'hanno, servono a dissipare tutte le dietrologie musicali che ci portiamo appresso in attesa di tirarle fuori; questa è la musica del "qui ed ora": appannata e sporca di tutto ciò che siamo stati, e forse saremo per sempre, lacera e lacerata dal battere dei tasti o dalle distorsioni di chitarra di "Pinned Together, Falling Apart" ma ancora ebbra di leggerezza e spiritualità come in "Never Destroy Us" prima che diventi violenza punk sul finale, in fondo siamo anche questo.
Tiro il fiato con "Warm And Sunny Days", prima che la semplice melodia di "The Death Of All The Romance" mi trasporti altrove fra voci intrecciate come fili e sogni raccontati come se fossero vita reale, il motivo per cui sono qui a scrivere.
"Postcard From Purgatory" è un tango, triste e sporco di frequenze inusuali, ma è un tango: sensuale e nostalgico, forte e arrendevole, viscerale e malinconico, ferino nel suo concludersi tra i feedback. La conclusiva "No Cities Left" è una fisarmonica che ci compiange da un luogo in cui non saremo mai.
Ci compiange e ci schernisce: "non pensi sia ora di spegnere quella cicca e alzarsi da quel pavimento?"
"No".

Carico i commenti...  con calma