La band di Mark E. Smith è senz'altro da annoverare tra le realtà più coraggiose, originali e rilevanti della scena post-punk inglese di fine anni settanta. Assieme a Wire e Pop Group raggiunse infatti la massima espressione del genere, minacciando la forma canzone e osando, con intuito e contaminazioni improbabili, soluzioni strutturali/esecutive inedite atte a favorire quella ricerca che portò il rock della successiva decade a mutare ancora una volta le sue sembianze. Per rinnovarsi, sopravvivere.

Ciò significa che da quel momento, chiunque avesse ripercorso quei sentieri avrebbe attinto dalla produzione di queste incredibili formazioni; nel caso del gruppo ivi (più o meno) recensito, basti pensare a come persino i Pavement - band emblema di un'ulteriore metamorfosi avvenuta in vista degli anni novanta, in cui è tangibile l'influenza di Smith (e soci) - gli resero omaggio.
E proprio "The Classical" forse potrebbe riassumere, con molta sintesi e molta enfasi, lo spirito della poliedrica formazione dei Fall: un ritornello dal motivetto orecchiabile, per un brano che sarebbe potuto essere di una semplicità disarmante, non fosse stato cadenzato da un cantato schizofrenico e suonato in maniera strampalata, con tanto di tribalismi à la "Sympathy for the Devil" e schitarrate che anticipano il lo-fi primordiale dei Beat Happening e quello "consacratorio" dei Pavement.

La considerevolezza di questa opera, a prescindere dalle qualità suelencate che, oltre a ravvisare la band, ne identificano il contenuto, risiede probabilmente nella sua eterogeneità e nell'inconcepibile qualità di tanta carne sul fuoco. Appare pressoché impensabile che il kraut di "I am Damo Suzuki", lampante testimonianza dell'influenza caniana metabolizzata dal decennio precedente, e l'ineccepibile "Paint Work" possano spartire i solchi con la new wave di "Barmy", che altro non è se non la canzoncina, il brano "pop" secondo Mark E. Smith.

Ma al di là di elogi e paragoni (Wire e The Pop Group, ndr), è bene prescisare che questo "This Nation's Saving Grace" è lungi dalle impeccabili vette avanguardiste raggiunte dal succitato collettivo popolare di Mark Stewart (in "Y"), ma è anche vero che la spigolosità del genio di Smith non ambiva a quel tipo di ricerca e, anzi, ergeva i suoi spontanei propositi su fondamenta di stampo più classico e meno distruttivo. Giusto per tentare di inquadrare l'esatto contesto artistico, pur trattandosi in entrambi i casi di convenzionalmente chiamato post-punk. Ma una cosa è certa, anzi due: a) nessun altro suona(va?) così; b) dischi come questo non ne avremo più.

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