Ore 6 della mattinata natalizia.
Da poco ho riaperto gli occhi; fuori casa soffia il fohn, vento caldo da nord. La temperatura in questo momento è di circa 15 gradi. E siamo in inverno...
Dentro di me il gelo...non sopporto più il Natale. Per anni ho dovuto fingere, con Elisa bimba. Ma ora il mio Diamante si è fatto grande; e sono ripiombato nel buio più totale.
Mi metto le cuffie, non voglio svegliare nessuno. Parto con la ricerca in rete ed in breve trovo ciò di cui ho bisogno.
Conoscete la storia dei God Machine. Il DeMa ha scritto un paio di recensioni sulla band e non voglio dilungarmi troppo...non ho molto tempo a disposizione oggi.
John Peel, celebre DJ e produttore inglese, si accorge subito della band agli inizi di carriera e delle enormi potenzialità musicali. Li invita nella sua trasmissione nell'Aprile del 1992.
28 minuti di passioni, 28 minuti che scaldano, 28 minuti che irradiano fuoco e potenza. Accompagnati dai consueti rilasci, dagli abituali rallentamenti così cari a chi conosce a fondo i God Machine.
Una brevissima introduzione di John per presentare il trio.
E si parte.
Schiaccio il tasto Play ed in presa diretta, come viene viene voglio condividere con voi le sensazioni avvertite nell'ascolto. Commitment è il titolo del brano di apertura.
Suoni immediatamente giganteschi, ossessivi, mantrici. Voce distaccata, un eco lontano che diventa più nitido, più chiaro. Robert pronuncia le sue litanie, disegnando trame di chitarra dall'acidissimo sapore psichedelico. Rumori impetuosi, distorsore che d'improvviso viene aperto ed il primo brano decolla. Si parte per il viaggio nel remoto spazio; ecco il primo abbandono...gli strumenti si spengono. Rimane solo la voce, sempre più flebile. Poi ritornano ad affondare, a colpirti in faccia, a demolirti. I suoni diventano allucinanti, tremendi, confusi...e la canzone così si conclude. PAZZESCHI...
Ancora John ad introdurre The Desert Song uno dei capolavori assoluti della Macchina di Dio. Batteria e basso tessono un tappeto sonoro alieno, di peso, massiccio. Un viaggio verso i deserti dell'Asia, spazi immensi che si aprono nell'ascolto. Caldo, sole cocente, aria satura di note. Giri di chitarra che vogliono guidarti verso una meta sicura. Stridenti note ti accompagnano, la voce si trasforma in un lamento, si placa; la musica ti abbraccia, ti si incolla addosso...e ne vieni fuori frastornato.
Hanno il coraggio di omaggiare i Bauhaus con una versione al cardiopalma di Double Dare...Come entrare in una chiesa gotica di notte, al buio, da soli. Suoni dilatati, ampi...voce urlata da brividi sulla pelle. Tutto diventa oscuro, tenebroso. Batteria lancinante, che ti scuote, che arroventa il suono pastoso di basso e chitarra. E la chiesa crolla su se stessa...
Siamo già alla fine con Pictures of a Bleeding Boy. Atmosfere tranquille, dopo il fuoco precedente. Hai l'impressione che da un momento all'altro possa avvenire l'esplosione, il cambio di registro. Ma si va avanti con la pace interiore, con quel lamento degli strumenti capaci di disegnare momenti idilliaci, puri. La purezza del suono God Machine: quante volte l'ho avvertito nell'ascolto delle loro canzoni!!! Ed è così, e sarà sempre così con loro...Mi tolgo gli occhiali per un momento; asciugo lacrime di felicità, mentre il brano sfuma via, si coclude. Eterei, celestiali, immensi.
Nessun suono riuscirà ad avvicinarsi a tali sensazioni, a quello che provo, a quello che sento con Robin, Ronald e Jimmy.
Ho finito.
Diabolos Rising 666.
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