Ma tra le foglie secche c’è una scintilla che non si ripeterà mai più.
O in una scatola di fiammiferi, o sotto la scorza di un olmo silenzioso, o chissà dove laggiù. Solleva un sasso e guarda se vuoi.
Dimmi piuttosto, armoniosa dulcymere, dove mai s’intrecciano i giorni e dove se ne vanno ad annegare le notti tinte di pece e di sogni?
Posa il disco sul piatto ed aspetta, abbi pazienza:
(frrrr)
e tutto ad un tratto, una fiera di paese un’orchestrina un girotondo un tintinnare giulivo. I bambini indossano vesti umili ma variopinte, e girano e girano e girano.
«Pianta una filastrocca nella terra dell’altrove —mi sussurrò uno— e lì cresceranno alberi dai mille colori. Basta solo un po’ di pazienza.»
E scorre intanto impetuoso il fiume, lasciando quel nonsoché di malinconico intorno. While the blind shepherd, who knows nothing of this melancholy, whistles a little melody.
1966, Edinburgh, Scotland.
Strumenti dalle geometrie bizzarre. La foto di copertina di “The Incredible String Band” immortala tre Scottish minstrels, giovani quanto basta per cavar fuori leggiadrie naif e virtuosi quanto basta per meritarsi l’appellativo di Incredibles.
Finito il disco, il trio subito si sfalda. Sembra l’inizio, quasi, d’un fairy tale:
«E fu così che il primo se ne partì con una carovana hippie per un lungo viaggio; il secondo se ne andò in Marocco, tornando qualche mese dopo con qualche pulce in più e con un guembri mangiato dalle tarme; il terzo se ne restò a casa.»
Anno di grazia 1968.
Prendendo a prestito dal mondo una costellazione di strumenti acustici, tirando fuori dal cilindro orlato di stelle una manciata di profondissime lullabies e di traballanti melodie, Mike & Robin giocano a fare il fuoco e la notte, le stelle e i radiosi vespri. E così, dopo molti spiriti colorati ed altrettanti strati di cipolle, i due menestrelli tirano su il loro vagabondo teatrino: sghembe e tremolanti, dieci canzoni dal fondo del fondo del fondo (del fondo del fondo del fondo) del cuore, qui tutte per noi.
Nella foto una festante comitiva con le scarpe sporche di fango. M., a lato, tiene in mano una maschera nepalese pitturata a tinte vivaci. L’immaginazione rubiconda e le guance arrossate dal freddo dei bambini. Il cane, in basso a destra, che mi piace immaginare risponda al nome di Charlie. Un viatico per un istante senza tempo.
Così, con quel bel vezzo da sciamani itineranti d’acconciare le cose con campanellini tintinnanti, drappi scarlatti e piccoli trinkets, con canti melodiosi ed un poco stonati e con suoni di pastello che sanno d’antico e di spezie, il fiume del mondo si fa, tra mille rivoli inafferrabili, musica. E viceversa.
“The Hangman’s Beautiful Daughter”: già il titolo nel non dire nulla dice tutto, su quella scintilla (che non si ripeterà mai più) nascosta tra le foglie accartocciate ed inumidite dalla brina.
"Seeded elsewhere, planted in the garden fair grow trees, grow trees"
(questa è la magia)
A tender cradle song, long ago relinquished, so long ago.
Ed un minotauro, sepolto nella nera notte d’un labirinto.
Ed albe al suon di clavicordi e armoniche, profumati di dalia e di boccadileone e di scoperte lontane dolcemente carezzate.
E William Blake è sempre là, a dar forma alle sue allegorie.
Intanto sul tavolo divinità mute, luoghi dell’anelito e scatole di latta piene zeppe di cose senza nome.
Fluvial laments and forgotten sadnesses che spazzano il volto, come solo sa fare il vento.
E molte altre trame ed orditi simbolici dall’odor di frassino e d’oblio, abissali ed arcane, ma mai austere.
Una spinetta lascia fluttuare una nuvola sulle nostre teste.
Un titillare e poi
(frrrr)
silenzio.
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