Nella mia costante voglia di essere altrove (o meglio, nei miei numerosi sogni ad occhi aperti), mi trovo, di tanto in tanto, ad immaginare qualche pertugio aperto nel multiverso, e penso proprio che in uno dei possibili universi paralleli potrei avere una bella chioma afro, sgargianti pantaloni scampanati e una camicia di raso lucente mentre avanzo saltellando nella “Line Dance” di Soul Train. Pochi dubbi sulla musica che mi accompagna: qualcosa come “That Lady” degli Isley Brothers.
Funky morbido, cioè non così radicale come quello dei Funkadelic o di Sly and the Family Stone, linee vocali calde ed eleganti, ritmo irresistibile, e un gran sfoggio di chitarra solista superfuzz, fra Hendrix e Hazel, capace di trascinare il brano in ambito rock. Si potrebbe parlare di crossover, ma a pensarci bene il vocabolo è proprio sbagliato: “crossover” esige che ci siano dei confini da superare, ma questi sono i meravigliosi (musicalmente, almeno) anni 70, e il pop-rock è ancora mondo fluido e squisitamente libero, nel quale pescare a piene mani da qualsiasi fonte di ispirazione è la cosa più normale possibile.
Lo si può ben sentire dalle cover che, accanto ai loro brani originali (fra i quali, appunto, “That Lady”) gli Isley inseriscono in “3+3”, il loro album del 1973. Il delicato cantautorato di “Don’t Let Me Be Lonely Tonight” di James Taylor è trasformato in uno struggente soul-blues solare, mentre la hit tardo-hippy “Summer Breeze” viene spogliata delle reminiscenze anni sessanta ancora presenti nell’originale, e supera se stessa arricchendosi di armonie vocali, impreziosita da stupendi solo di chitarra. Anche il classico “Listen to the Music” dei Doobie Brothers, già abbastanza vivace di per sé, subisce una genuina sferzata funky elettroacustica con l’immancabile clavinet a sottolineare un arrangiamento davvero felice.
Risultati che Ronald, Rudy e O’Kelly, vocalist nucleo originale degli Isley Brothers, riescono ad ottenere dopo quasi quindici anni di onorata carriera dall’iniziale doo-wap e rythm’n’blues immettendo nel proprio organico i fratelli Ernie (chitarre) e Marvin (basso) insieme al cognato Chris Jasper alle tastiere. La famiglia Isley, così, si appresta a godere di una seconda giovinezza, e probabilmente la migliore stagione della sua interminabile carriera.
I risultati migliori? Sicuramente nei brani originali della band ricchi del meraviglioso linguaggio musicale di quegli anni. Gli Isley Brothers condividevano gli studi di registrazione con Steve Wonder alle prese con il suo Innervision, e la comunanza di atmosfere si sente ad esempio negli accordi luminosi del soul danzereccio “If You Were There” (irresistibili le armonie vocali del ritornello), così come in “The Highways of My Life”, emozionante traccia lenta, si direbbe quasi una ballata, dove spiccano il pianoforte e l’evocativo tema di sintetizzatore (è proprio lui, T.O.N.T.O., lo stesso utilizzato da Wonder). E se “You Walk Your Way” evoca le radici gospel della musica del gruppo, a mostrare la sua anima più avventurosa ed eclettica, anche se assolutamente equilibrata, è “What It Comes Down To”: l’appassionata lettera d’amore cantata da Ronald è scandita dall’incalzante ritmo di chitarra e bassa all’unisono che strizza l’occhio (si direbbe) agli Yes di Roundabout.
La scelta poi di una produzione corposa e asciutta, lontana ad esempio dalla magniloquenza che Charls Stepney avrebbe insegnato agli Earth Wind & Fire, rende “3+3” ancora più fresco, diretto, l’inizio di una stagione entusiasmante per gli Isley (penso a brani successivi capaci sempre di farmi sentire addosso le fiabesche scarpette rosse, come “Midnight Sky” del ’74 e, due anni più tardi, l’intensa e commovente “Harvest for the World”).
Non mi rimane altro che tentare un passo nel mio universo parallelo: sicuramente un paio di pantaloni a zampa d’elefante (o “di leone”, come disse una volta un mio professore) li posso trovare, per il resto… cosa costa sognare ad occhi aperti?
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