L’Anti-Pop per antonomasia, il Rock d’avanguardia e la sua esasperazione, la sperimentazione elettronica e la musica concreta, gli sbiechi arrangiamenti orchestrali e le voci filtrate, la manipolazione dei nastri ed i collages fuori da ogni logica e schema, l’allestimento visivo oltre che sonoro di abnormi teatrini dell’assurdo, la capacità di asservire la musica popolare ed i costumi americani al parodismo più beffardo fino al sarcasmo più parossistico, distorcendo e destrutturando ogni elemento della “canzone”, o di quanto si suppone tale, sono stati i marchi di fabbrica che, con indefessa coerenza ed indipendenza (vedi la Teoria dell’oscurità come ricerca della purezza in arte), “I Residenti” hanno portato avanti dai primissimi anni settanta ad oggi.

Quali aggettivi per meglio descriverli se non sinistri, claustrofobici, corrosivi, caustici, iconoclasti, sadici, visionari e contemporaneamente acuti e lucidi?

Hanno dissacrato con ironia, humor nero ed efferatezza, Beatles, Rolling Stones, Elvis Presley, George Gershwin, James Brown, Hank Williams, il Pop, il Rock’n’Roll, la Muzak, l’industria discografica, l’idolatria Rock, l’ideologia americana, la massificazione, l’omologazione e il consumismo che sclerotizzano, umiliano, sviliscono ed alienano l’uomo. Hanno cantato la fantomatica epopea di una civiltà spuria di uomini e macchine, postmoderna e de-evoluta. Hanno esaltato la civiltà eschimese, giungendo a far intonare ad una sorta di coro di voci bianche, sommerse da impetuosi, molteplici e gelidi flutti di vento, lo stornello “Coca Cola is Life”. E, finalmente, nell’Anno Domini 1998, i Residents hanno dato alla stampa il loro ventesimo album ufficiale: “Wormwood. Curious Stories from the Bible”.

Si tratta di un concept di venti canzoni. Adottano il formato canzone classico, cosa già stravagante per i loro standard, andando ad attingere a piene mani dall’Antico e dal Nuovo Testamento i personaggi più atipici e le situazioni più scabrose, per dipingere un’umanità perlopiù rozza, gretta, meschina, ma profondamente ed autenticamente umana. Il loro intento dichiarato non è “né di vilipendere, né di glorificare il Testo Sacro, ma di umanizzarlo”. Il compito di YHWH, non era affatto dissimile: umanizzare l’uomo (attraverso Dio). In tal senso essi risultano tutt’altro che blasfemi. La Bibbia, innegabilmente, ritrae la vita nella sua interezza, nella sua realtà vera, non ideale, non sognata, e perciò presenta situazioni edificanti e non. Così i Residents, in definitiva, vogliono umanizzare l’uomo (biblico) attraverso se stessi.

La band nata in Lousiana, ma di stanza a San Francisco, si adopera ad allestire venti scene fondamentalmente teatrali, rapprese in singole canzoni indipendenti, distribuite in ordine sparso, ad eccezione della Genesi (“The Beginning”) e dell’Apocalisse (“Revelation”), collocate agli estremi opposti. Accanto alla voce del vocalist ufficiale, il Bulbo Oculare Verde, che con la consueta ampollosità viene amplificata, esasperata e deformata, più con effetti di phatos che di caricatura, ci sono varie interpreti femminili tra cui spicca, con un cantato attraente e sentimentale, Carla Fabrizio (collaboratrice assidua dei nostri, anche strumentista, soprattutto di rebab, violino balinese, così come collaboratrice di American Music Club e Red House Painters, nonché membro degli oscuri Vudi & The Bugbears).

Spadroneggia ovunque l’elettronica pesante tipica della band, e straniante, che persegue arrangiamenti irrisolti, su mood grevi, scuri e solenni. A questo elemento altisonante, in qualche modo "aulico", si oppongono dicotomicamente insoliti funky beats. Seppure sintetizzatori e tastiere prevalgano, allora, c’è spazio per drum machines incisive e ficcanti, per percussività tribali, per distorsioni chitarristiche e rumorismo intermittente. Tuttavia le voci e i versi liberamente ispirati alla Sacra Scrittura, va sottolineato, sono sempre in primo piano.

Le note introduttive ai testi, nel libretto accluso al CD, commettono un paio di errori di carattere teoretico, cassando prima, con improvvida tempestività, l’idea della creatio ex nihilo, assunto fondamentale dell’ebraismo, della mistica ebraica e del pensiero teologico cristiano. Poi cadendo nel letteralismo e nel fondamentalismo, in riferimento al vecchio “adagio” delle 144.000 anime che, secondo l’Apocalisse di Giovanni, si salveranno, andandolo ad interpretare astoricamente e, di conseguenza, acriticamente. Ma, a parte questi due “peccati veniali”, musiche e liriche colpiscono nel segno, pienamente. Senza eccepire e con gusto.

In rassegna.

Dopo le goccie di piombo dell’introduttiva “The Beginning”, si procede con la drammatica “Fire Fall”, il canto di Lot che, posteriormente alla distruzione di Sodoma e Gomorra, ed alla morte della moglie, venne fatto ubriacare e fu abusato dalle figlie smaniose di concepire; il brano è giocato sull’alternanza di una fase distensiva, cadenzata da trombette infantili, o giocattoli gommosi, very childish, ad una sequenza enfatica, che porta ad un crescendo epico e tragico, magistralmente stretto nei versi “Fuoco è caduto dal cielo. Lacrime caddero dai miei occhi”.

Il profeta Geremia è “Mr. Misery”; “Bridegroom of Blood”, con le balbuzie di Mosè, inaugura invece la pratica della circoncisione, laddove l’ossessione psicotica di Salomè per la testa del Battista viene ritratta nell’invasata danza da menade di “How To get An Head”. In “Cain and Abel” il fratello omicida dispera e brucia, in successione, nell’invidia, nella rabbia e nel dolore insopportabile.

Le morbide fattezze di Betsabea intenta a farsi il bagno, che irretiscono il re Davide e lo inducono a far assassinare il di lei marito, nonché suo fedele generale, Uria l’Ittita, sono cantate languidamente in “Bathshaba Bathes”, mentre un beat funky con armonie irregolari racconta di Giuseppe che interpreta il sogno del Faraone “The Seven Ugly Cows”.

Le riflessioni amarissime di Giuda Iscariota, “The Hit Man”, emergono in “Judas Saves” con arrangiamenti liquidi e insolitamente melodiosi, anzi, fischiettabili. “Spilling The Seed” ha naturalmente per protagonista Onan che non impregna Tamar.

Capolavoro d’arte melodrammatica è poi “Hanging By His Air”, dove il figlio di Davide, Assalonne, che voleva usurpare il regno al padre, dopo aver giaciuto con le concubine di questi, muore in battaglia restando accidentalmente appeso ai rami di una quercia; qui egli raccoglie le forze esangui in un ultimo grido lacerante, “Soon I would be dead / but I sleept in his bed / with his women and said / Fuck you father”, tra i memorabili fendenti di chitarra elettrica e le sottolineature magniloquenti dell’organo. Non mancano orientalismi vocali ed inframezzi di esili percussioni etniche, accanto al recitativo istrionico e, solo nel finale, un pianismo delicatissimo tra i sospiri.

Cori angelici, un piano brioso e synth onirici vellicano “I hate Heaven”, dove la “bruna ma bella” sposa del Cantico dei Cantici si contorce turbata, oltremodo sensuale; i nostri irridono con smaccata bassezza questo poema sublime, passando da un fedele “My lover calls my teeth an invitation to my soul” al goliardico “But he does not understand the dept of my black hole”.

Infine la meravigliosa “Burn Baby Burn”, un felice incedere ritmico tra percussioni amene e tastiere esaltate, sul controverso tema del sacrificio della figlia di Iefte e del voto paterno, per immergersi in un tripudio di trombe, campane, organo e sintetizzatori. Il ritornello è così vistoso, bello ed orecchiabile che pare una operazione di “metateatro” per i nostri che dissimulano, o denigrano, se stessi, fingendosi i Buggles di Trevor Horn.

Fossero tutti così paradigmatici questi pezzi, e non "soltanto“ suggestivi, saremmo difronte ad un incomparabile must. L’album a tratti risulta invece inevitabilmente stucchevole. Ma, se non altro, siamo difronte all’opera più rappresentativa degli anni novanta della band californiana. Giustamente replicata da un gemello live dal titolo “Roadworms”.

Certo la Bibbia ha partorito Milton, Shakespeare e Bach. Ma anche i nostri eroi alternativi, zappiani e beaferthiani, han detto la loro in proposito.

And God only Know what we’d be without Residents.

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